mercoledì 16 dicembre 2015

Esto nobis praegustatum

Non è una dimostrazione di acuta sensibilità, di certo. Però quando ascolto certa musica, soprattutto cantata, mi commuovo, mi metto a piangere. Oramai conosco quali sono i brani che mi provocano questa reazione, e metto in campo tutte le strategie per mascherare questo fenomeno.

Perché mi succede questo non lo so. Non c'è una ragione che riesca a descrivere, ma è come se, durante quel preciso ascolto, mi sentissi preso da una specie di sindrome di Stendhal, come se avessi accesso ad un passaggio nascosto verso un universo di emozioni che altrimenti non percorro, e questa visione mi provoca una commozione non controllabile.

So ben riconoscere i tecnicismi dei passaggi musicali che generano questa sensazione: il crescendo ad ondate di Brahms (ed il lento incedere di Wagner), i nove minuti nove della fine del primo atto della Traviata - un misto di emozione legato alle suggestioni del testo coniugate al miracolo che si rinnova della creazione della magia del mi bemolle sovracuto (mi scendono le lacrime solo ad immaginarlo nella mia mente) - un preludio di Chopin (uno dei pochissimi casi nei quali mi emozionavo ascoltandomi suonare). Misteriose chiavi che aprono porte di emozione, e forse non è neppur sensato chiedersi perché queste lo facciano.

Ma lo specchio della barba, l'altra mattina, mi ha fatto una domanda che mi ha turbato. Perché le emozioni forti sembrano essere confinate tutte in questo ambito nella mia esistenza? Perché mi sento perdere nel nulla solo quando il coro esplode, quando la voce del soprano nell'Ave Verum si sviluppa cristallina nel suo arabesco perfetto? Possibile che riesca a provare emozioni solo in questo ristretto ambito, e sia un'insensibile persona nel resto della mia vita?


giovedì 12 novembre 2015

Cinque anni

Ognuno ha i propri percorsi, nella vita. Il proprio carattere, le proprie attitudini. C'è chi è impulsivo, chi agisce in un attimo. C'è chi, come me, ha bisogno di essere convinto, prima di fare una cosa. Una convinzione di testa, che purtroppo talvolta non coincide con le convinzioni emozionali.

In campo sentimentale devo essere, evidentemente, una frana. Curiosamente se ascolto le persone che mi conoscono, ma non hanno mai avuto un rapporto intimo con me, dicono tutte che sono da sposare (ora posso); se ascolto le donne con le quali c'è stato un rapporto d'amore dicono l'opposto. Ora, a meno che io non sia il dott. Jekyll, c'è qualcosa di strano. Si può spiegare la stranezza in tanti modi, che io sia molto meno interessante preso a grandi dosi (la versione di i.), oppure che io sia un bugiardo impenitente (la versione di b.), o che sia semplicemente tollerato fintanto che servo a soddisfare un bisogno (la versione di molte mie amiche). Qualunque sia la ragione, se cerco di capire come mi sono posto nei miei rapporti, comprendo sempre di meno. Non per merito, ma perché son fatto così, nel rapporto non mi risparmio: mi impegno, mi metto in dubbio, sono disponibile, credo di mettere sempre l'altro davanti a me stesso. Eppure, tutto questo sembra essere considerato nulla, anche quando mi si diceva "sai, non sono mai stata abituata a queste attenzioni, nessuno mi è mai venuto incontro quando stavo male". Comincio a credere che forse proprio qui stia il problema: considerare la mia disponibilità come un diritto, e non una scelta che si ripete ogni giorno. Quando questa disponibilità viene meno perché c'è un problema, perché non sono corrisposto, perché non la vedo apprezzata, allora si rompe il giocattolo. Ecco, forse proprio qui sta la ragione dell'affermazione di molte mie amiche, che sostengono che devo dire molti no.

In effetti, dire di no è il mio vero problema. Sono stato educato nel concetto che ad una richiesta si risponde di si, perché altrimenti si è egoisti. Ci è voluto molto per rendermi conto che spesso l'egoismo è invece di chi chiede, senza equilibrare le cose. Ho spesso fatto cose per prendermi carico dei problemi altrui, senza rendermi conto che questo veniva visto come mio dovere, e non come complicità. La complicità non è solo avere cose intime, conosciute solo all'interno del rapporto, ma è partecipare alla vita dell'altro, e comprenderne appieno il valore.

Probabilmente anch'io non ho sempre compreso in pieno il sapore della complicità. Non sempre ho capito il valore che la compagna attribuiva ai suoi gesti nei miei confronti. Non ho capito soprattutto cosa si aspettava da me, come non sono stato capace di far capire cosa aspettavo da lei, e soprattutto, cosa non aspettavo. Però credo sempre di aver saputo comprendere una cosa fondamentale: che siamo tutti delle persone che sbagliano, e io per primo. Anche quando fatti mi hanno procurato dolore, ho saputo capire e giustificare la donna con la quale condividevo l'Amore. Il mio limite è invece non reggere la mancanza d'armonia nella coppia: non sto parlando della litigata, ma della continua, incessante, martellante tensione. Se c'è un problema, le cose si risolvono insieme, il che vuol dire che, indipendentemente da chi abbia causato il problema, si cerca insieme di superarle, aiutandosi, e non pretendendo una rigida distribuzione dei compiti: amore ed equità si incontrano solo dopo un lungo percorso.

E questo mi danza nello specchio, al mattino, quando riconosco che sono cinque anni che vivo da solo, e che forse la vita ed il tempo mi hanno inaridito.



mercoledì 14 ottobre 2015

Flexibility and wellness - Le nuove frontiere del lavoro

Sono reduce da una convention aziendale. Uno di quegli eventi di moda fra le aziende "ricche" per "motivare" il personale. In sostanza si tratta di uno o più giorni di svago inframezzati da attività pseudo formative nell'ambito del cosiddetto "team building", ossia nel convincere persone che volentieri si eviterebbero a stare insieme convincendole pure di stare a divertirsi.

Sarà l'età o il carattere, a me queste attività sembrano sempre più forzature, e le subisco cercando di analizzare, dietro ad esse, gli aspetti sociologici e di godere dei pochi eventuali aspetti interessanti delle attività in programma.

Questa convention si è tenuta in una area molto bella, che peraltro avrei volentieri evitata a causa di recenti storie sentimentali. La terraferma alle spalle di Venezia, peraltro, è molto affascinante per le sue magioni di campagna, molte delle quali trasformate in alberghi di charme nei quali abbiamo soggiornato. Alberghi che sanno tutti di muschio e muffa antica, di vecchi armadi e stanze in penombra, ricordandomi gli odori della mia campagna, non molto diversa da questa. Cultura del bello, neoclassico ovunque, una pace nello paesaggio anche sotto la pioggerellina.

E bella, affascinante, la gita in battello dalla foce del Sile fino a San Marco, di notte. Giacca marina, a prua, la bocca aperta a gustare la fila delle briccole che tracciano la rotta, illuminate da una tenue lucina, costeggiando la meravigliosa Burano, attraversando Murano, fino a sorprendere Venezia aggirando l'istituto Morosini, le luci del Lido di fronte. E passeggiare sulla riva degli Schiavoni alla luce dei lampioni, senza l'affollamento consueto, in una notte stranamente priva di umidità (la mia schiena ringrazia!)

Ma torniamo all'aspetto sociologico della convention: il gioco a tema. Le attività di team building sono sostanzialmente tutte uguali: giochini che spopolerebbero nelle scuole primarie, conditi con una supponenza di messaggio francamente spropositata. Questa volta si voleva riflettere sulle modificazioni del rapporto dipendente-azienda. La tesi era che sempre più si desidera avere un impiego che coniughi efficacemente il benessere con l'impegno, per evitare il dualismo lavoro-piacere e trasformare la vita in un piacere-lavoro.
Ascoltavo il concetto e pensavo cosa significasse in realtà: dietro alla visione del lavoro gratificante anche sotto l'aspetto ricreativo (attività sportiva o culturale coniugata con l'ufficio) mostrata come un modo per vivere con maggior appagamento la vita produttiva, mi appariva sempre più chiaro il tentativo di frantumare i confini ben consolidati fra ore lavorative e vita personale, in un mix indefinito nel quale una si insinua nell'altra. Insomma, puoi divertirti con un po' di palestra durante la giornata (se ne avrai il tempo), in compenso assicuri una presenza anche nelle canoniche off-hours grazie alla tecnologia (telefonini, internet, pc). Il concetto della destrutturazione del lavoro nel privato e viceversa, che consente una flessibilità (termine che nel frasario contemporaneo ha valenza più che positiva, qualunque cosa significhi) sempre maggiore.

Ora, non è che voglia fare battaglie di retroguardia, ma sono convinto che lo stipendio di ciascuno debba essere commisurato a due parametri complementari: al lavoro effettuato ed ai risultati ottenuti. Entrambi devono essere proporzionati e tarati per poter garantire un soddisfacimento dell'azienda e del dipendente. La richiesta di risultati che non sono raggiungibili se non attraverso un sacrificio della propria vita privata è una costante ed una consuetudine oramai consolidata; la mia sensazione è che questa apparente new age del benessere nel lavoro altro non sia che un modo per giustificare un'intrusione ancora più pesante nel privato dell'attività lavorativa, mascherandolo da benefit di azienda illuminata.



giovedì 8 ottobre 2015

E Susanna non vien

E' il titolo di un bellissimo saggio, sulla trilogia dapontiana delle opere di Mozart, che mi regalò mesi fa Roceresale, sorridendo sul doppio senso della frase. Ma prima ancora è l'inizio di un recitativo delle Nozze di Figaro, appunto una delle opere della citata trilogia.



La tesi di questo saggio è che esiste un filo conduttore fra queste grandi opere, la passione amorosa espressa nella declinazione del piacere della schermaglia (Così fan tutte), nel turbine della follia fuori controllo fino a diventar criminale (Don Giovanni), e nella passione pura che riporta il disordine all'ordine (le Nozze di Figaro). A fianco di questo fil rouge, ci sono dei sottotemi comuni (ruoli simili con importanze diverse - ad esempio il conte d'Almaviva e Don Giovanni rappresentano il libertino con aspetti di compulsività diversi) che intrecciano le tre opere in modo indissolubile.

Delle tre, amo il Don Giovanni in modo particolare. Il saggio mi ha fatto nascere il desiderio di ascoltare con attenzione diversa anche le altre, sicché non mi sono lasciato scappare l'occasione, qualche giorno fa, di un canale di rappresentazione che avevo visto pubblicizzato ma non avevo mai provato: l'Opera al Cinema. Ho visto un cartellone che reclamizzava la diretta dal Covent Garden delle Nozze, in un cinema della mia città, e ci sono andato.

Come ho scritto in un recente post, la tecnologia moderna consente di fruire dell'Opera in modi diversi e nuovi, e di interpretarla in forme altrettanto varie. Una ripresa diretta di una rappresentazione operistica in teatro apparentemente non è altro che un reportage di un evento consueto, con la differenza di offrire a più persone la possibilità di partecipare allo spettacolo. Quella a cui ho assistito invece mi è sembrata un'intelligente applicazione della tecnologia per fruire in modo diverso della stessa messa in scena che i fortunati londinesi seduti al Covent Garden stavano godendosi.

Chi siede a teatro ha, per questioni fisiche, una visione del palcoscenico "globale" e, fatto salvo l'uso dei binocoli da teatro, non ha modo di apprezzare appieno le espressioni, la recitazione, l'aspetto fisico legato all'attorialità del cantante. Questa limitazione ha fatto si che in passato i cantanti d'opera fossero delle statuine poste sul palco, animate da movimenti standardizzati, e si concentrassero fondamentalmente sull'espressione vocale. La ripresa cinetelevisiva invece permette di "andare" sul palco, fruire delle espressioni, godere dell'aspetto recitativo del corpo. La generazione recente dei cantanti d'opera ha imparato che non basta più una gran voce, bisogna essere allo stesso tempo dei bravi attori, sapersi muovere, occupare la scena, recitare, mentre ci si sta concentrando sull'emissione vocale. Un ostacolo nuovo, una sfida impegnativa.
Lo spettacolo a cui ho assistito ha evidenziato questa caratteristica: ho visto una gran recita, quasi cinematografica, a corredo di un'esecuzione di alto livello dal punto di vista del canto. Mi è rimasto un dubbio, che è quasi certezza, ossia che la recita non sia stata effettuata cantando, e che si sia mixato in un secondo tempo voce e presa scenica. Ho avuto la sensazione che talvolta le labbra non fossero sincrone con il canto, come se i cantanti stessero recitando muovendo le labbra mentre ascoltavano l'opera preregistrata cantata da loro. Questo spiega la loro capacità di saltare a destra e a manca mentre cantano a squarciagola, uno sforzo difficilmente sopportabile anche da giovani cantanti come loro.

Benché qualche purista possa storcere il naso, io non sono contrario a questo approccio. E' una fase tecnica, come lo è la registrazione discografica: possibilità espressive nuove altrimenti precluse dalla rappresentazione classica. Per chi assiste è ben diverso ascoltare una grande voce che recita (l'opera è teatro in musica, il buon Monteverdi lo concepiva come recitar cantando), piuttosto che ascoltarla e basta, come se fosse un disco vivente.

Quindi grande spettacolo, a mio avviso. Un'esperienza che mi è piaciuta, ed un cast di cantanti di tutto riguardo (dal Covent Garden non ci si può aspettar di meno, peraltro).
Il trailer qui sotto da un'idea di quello che significa unire scena cinematografica a belcanto.

lunedì 28 settembre 2015

Sed, un anno dopo

È passato un anno da quando sei mancata. Continuo a non capacitarmi di come tu sia volata via in così breve tempo.

Ti ricordo con l'ironia amara che usciva dai tuoi scritti. 

Ciao, Sed

mercoledì 23 settembre 2015

Arte: bellezza o apparenza?

Un'amica mi dice: "guarda che in Malpensa c'è l'orchestra della Scala. Fanno le prove per l'Elisir d'Amore". Mi informo, e scopro questa iniziativa; peccato che quella sera non possa presentarmi in aeroporto, ho appuntamento con un ex collega per un aperitivo, e non voglio paccarlo. Mi riprometto di vedere lo spettacolo in tv.

Apparentemente, dalle informazioni che raccolgo in giro, il senso di questa rappresentazione è un tentativo di affrontare in modo distruttivo il concetto di unitarietà di luogo che attraversa la struttura teatrale, e quindi operistica. Dai tempi della poetica aristotelica, e dalla sua reinterpretazione rinascimentale, l'unità di luogo nella rappresentazione teatrale da un lato è un aspetto di pulizia, dall'altro un limite nelle possibilità di sviluppare un racconto. Il cambio scena è un escamotage tecnico per proiettare il pubblico in luoghi diversi, consentendo una maggior vivibilità del racconto, ma rimane un espediente, e così non può che essere.
Dalla nascita della ripresa cinematografica e televisiva si può superare anche questo limite, portando gli attori in luoghi diversi, in scene vere, seppur riprodotte sul grande o piccolo schermo. In campo operistico c'è una nutrita serie di film che riprendono i cantanti in luoghi reali (il Don Giovanni di Losey, ad esempio, con un immenso Raimondi mattatore in voce e presenza), ma probabilmente sono alcune regie televisive italiane che risultano fra le più interessanti ricerche: vorrei ricordare la stimolante "Tosca nei luoghi e nelle ore di Tosca", probabilmente la più attraente ricerca di fruizione operistica che sfrutta le caratteristiche delle riprese cinetelevisive (regia di Patroni Griffi, ancora una volta Ruggero Raimondi e Placido Domingo a soddisfare i palati esigenti dei melomani).

Con questi presupposti in mente, e la curiosità di capire come il regista pensasse di incastrare un terminal aeroportuale nella storia dell'Elisir, ho guardato in tv la replica dell'evento. Purtroppo, a parte l'evidente alta qualità dei cantanti, il risultato mi ha molto deluso. Il trasporto della scena in aeroporto è stato un mero spostamento del palco, da un teatro ai banchi del check-in. Le riprese in luoghi diversi dell'aeroporto quasi non esistevano (a parte l'inizio al bar, con gli amici di Adina incomprensibilmente vestiti da piloti ed hostess, e qualche altra scena sempre ambientata nello stesso, per il resto tutto si svolgeva attorno ad un palco appoggiato ad uno dei pilastri della sala partenze); l'acustica dell'aeroporto è quella che è (adatta a smorzare rumori di fondo, inadatta totalmente ad un'esecuzione musicale, con echi lunghissimi che sfuggivano alla post produzione audio, molto attenta a pulire il segnale diretto ma superficiale nella gestione della sonorità ambientale).

Alla fine mi sono chiesto quale fosse lo scopo di questa rappresentazione, che ho trovato deludente: sono giunto alla convinzione che si sia trattato di uno dei tanti "eventi" di dubbia qualità che hanno costellato la vita dell'Expo milanese, a partire dall'imbarazzante concerto d'apertura in piazza Duomo.

Un'occasione persa, quindi, a mio avviso; oppure - ed è peggio - un segno dell'incertezza che regna nell'interpretare la bellezza, confondendola troppo spesso con l'apparenza.


martedì 1 settembre 2015

Comunicazione di servizio

Ho una curiosità: chi è il nerd che viene a visitarmi usando netvibes?

Puro interesse di bottega, eh! Non pensavo che qualcuno lo usasse veramente!!!!


lunedì 31 agosto 2015

Bach e le cattedrali gotiche

L'evoluzione del gusto musicale segue percorsi strani, spesso non razionalmente spiegabili. A volte strade ovvie non vengono percorse, e ci si avventura in direzioni che non hanno nulla a che vedere con i gusti attuali, con la sensibilità, con la conoscenza e la maturità accumulata fino a quel momento.
Io la chiamo curiosità, quella sana curiosità che ti porta d'istinto a cercare di conoscere prima di cuore che d'intelletto (cosa, per chi mi conosce, abbastanza distante dal mio modo di essere).

Bach, per me, è stato così fin da quando ero ragazzo. Stregato dalla Toccata e fuga in Re min. (che tutti conoscono, e che alle medie mi ero imparato nella impossibile trascrizione di Busoni), non capivo assolutamente nulla del suo contenuto. Semplicemente mi colpiva, mi stupiva quel continuo ripetere del tema la sol la fa la mi la re la do# la re la mi la fa che si incastrava in altre note apparentemente senza senso ma dal fascino irresistibile. Fu così che quando acquistai il primo lp di Bach (i concerti Brandeburghesi) mi trovai spiazzato: c'era tanto di più che non riuscivo a mettere a fuoco e che esercitava un fascino diverso, da scoprire. Poi l'incontro con il mio nuovo insegnante di piano e la scoperta di un linguaggio nuovo, che mi spalancò una conoscenza diversa. Solo allora i concerti e le altre opere di Bach cominciarono ad aprirmi pian piano i loro scrigni.

Un percorso ancora in divenire: sovente mi capita di scoprire cose nuove riascoltando brani conosciuti, semplicemente eseguiti da artisti diversi, o anche dallo stesso artista in periodi diversi. Questa multiformità che la musica di Bach assume fa parte del suo fascino, per me. Scoprire un sentore nuovo, una nota che c'è sempre stata ma che finalmente capisco nel suo contesto, assomiglia un po' all'emozione del cercatore d'oro quando trova una pepita fra la sabbia del fiume. 

Bach non è un autore da ascoltare in sottofondo, anche se si può prestare anche a questo. Ho ben presente la sabbia di Illetes, il sole, il mare di Formentera, e la partita per violino BWV 1004, risuonare come sottofondo alla lettura ed evocare le inquietudini dell'animo. Si, perché le opere per violino solo di Bach, oltre ad essere dei monumenti di complessità tecnica d'esecuzione, sono inarrivabili vette di contrappunto così come potenti catalizzatori di emozioni. Spesso dico che quando ascolto Bach vedo cattedrali gotiche; bene, nelle opere per violino solo queste strutture architettoniche si esaltano nella mia visione, in un sabba di suoni ed immagini che mi rapiscono.

Non saprei scegliere un brano: soprattutto le ultime tre opere (BWV 1004-5-6) sono una continua meraviglia (oltre ad essere state spesso utilizzate come musiche da film o da pubblicità). Forse la più rappresentativa di tutte, la più potente, è l'ultimo movimento della BWV1004, la Ciaccona. Lo stesso Bach ne ha curato la trascrizione per liuto e un'orchestrazione, e nella storia è stata trascritta per vari strumenti, tanto da diventare la stilizzazione della Ciaccona stessa. Un critico musicale vi scorge una danza di spettri, io sento l'anima espandersi, esplodere, salire alle stelle per poi tornare vorticosamente a terra. E contemporaneamente vedo lo spartito, le linee delle voci inseguirsi, la scrittura musicale così meravigliosamente complessa e chiara. Tanti possibili livelli d'ascolto, diversi da momento a momento, da persona a persona, eppure mirabilmente originati da una scrittura unica, sotto tanti aspetti miracolosa. Se Dio esiste, di sicuro ha comunicato qualcosa di arcano guidando la mano di Bach.

E' con queste premesse che ieri sera sono andato a sentire l'integrale delle opere per violino solo, ad Arona, nell'ambito delle settimane musicali di Stresa. Il violinista, Stefano Montanari, veramente bravo nella sua tecnica e ancor più nella capacità interpretativa, ha saputo tenere in continua tensione coloro che ascoltavano questi suoni misteriosi. Molto surreale l'immagine che mi resta del suo concerto: per una volta non frac o marsina, ma un violinista che sembrava avesse parcheggiato la sua Harley nel giardino di questa fantastica villa settecentesca - Villa Ponti - senza per questo stonare minimamente nel suo ruolo di fine esecutore, e di vero intellettuale. Come esempio della sua raffinatezza rimando al link della Gavotta en rondeau della partita BWV1006, meravigliosa esecuzione di queste variazioni a modo di rondeau su di un tema di gavotta. Ed infine, stupefacente anche per me che l'ho ascoltato solo ieri, questa meravigliosa interpretazione della già citata Ciaccona, che mi mostra, una volta di più, come lo stesso brano possa assumere tante facce differenti perfino se eseguito dal medesimo artista.



mercoledì 26 agosto 2015

Manina manina

L'essere single al mare offre numerose opportunità. Leggere in spiaggia senza interruzioni, andare a fare il bagno quando lo si desidera, tirare il tramonto guardando il mare dal lettino, fare gli orari che più soddisfano le proprie necessità di relax / piacere / interesse. Soprattutto lascia tanto tempo libero per osservare il paesaggio, comprendendo in questo sia quello propriamente geografico che quello antropologico.

D'accordo, io frequento spiagge che la maggior parte delle persone giudica - senza conoscerle - particolari, ossia vado in spiagge naturiste. Questa predilezione comporta di solito selezioni automatiche nel paesaggio: normalmente le spiagge naturiste sono meno sfruttate turisticamente, spesso selvagge e meravigliose (ma non è una regola ferrea), e le persone che le frequentano in generale appartengono ad un sottogruppo non rappresentativo della popolazione generale. Per il solo fatto di andarsene in giro nudi, la maggior parte fregandosene dell'età non più verde (eufemismo per dire che i cinquanta e spesso i sessanta sono già un ricordo), queste persone hanno un approccio con sé stessi e con gli altri abbastanza fuori dal comune.
Fatte tutte queste premesse, quest'anno mi sono spesso servito di una spiaggia naturista per giovani come me, il che significa una spiaggia con tutti i comfort (ombrellone, lettino, doccia, un lusso sfrenato per uno come me abituato a stendere un telo per terra, magari su di un masso), facilmente raggiungibile, ma non per questo priva di mare stupendo.

Ho quindi dato sfogo alle mie voglie di snorkeling, bordeggiando la scogliera che chiude la baia, osservando i (pochi) pesci li attorno, e l'ondeggiare ipnotico della poseidonia, che dopo un po' appare immobile mentre i massi che da essa sbucano sembrano spostarsi avanti ed indietro con il respiro della corrente. Mi sono beato di nuoto in acque tiepide, pulite, libere da meduse, moto d'acqua ed altre amenità del genere. Insomma, mi sono fatto una vacanza di mare come intendo io, come non me ne regalavo da anni.

Ma il paesaggio, come dicevo, include anche l'aspetto antropologico, e come accennato sopra, la fauna che mi si presentava apparteneva alla categoria tedesco-inglese, ultracinquantenne, serenamente sovrappeso, coppie senza figli. Ciò che mi colpiva, devo dirlo, è che la stragrande maggioranza di queste coppie sembravano fidanzatini in vacanza: mano nella mano, sorrisi beati, bagnetto insieme abbracciati, manina manina una volta sdraiati sui lettini. Poi dicono che i tedeschi non sono romantici... ma quando mai?!

In questo mio osservare un dubbio mi assaliva quotidianamente: era questa sintonia una recita, oppure uno stato di grazia dovuto al luogo, oppure era veramente una serenità di coppia così profonda che consentiva loro, ad un'età che spesso devo ancora raggiungere, di sorridere ai piaceri dell'amore legati non solo alla sfera sessuale, ma a quella più vasta del sentimento e dell'appagamento? Non ho saputo darmi una risposta, anche se dubito che una recita di questo tipo possa coinvolgere così tanti attori. Di sicuro una sensazione forte di assenza si impadroniva di me: l'assenza del piacere di sentirsi bene, si, ma soprattutto l'assenza della felicità di un rapporto così pervasivo, così pienamente soddisfacente.

Ben pochi frequentatori avevano prole al seguito (e ovviamente si trattava dei pochi che abbassavano la media dell'età); fra questi una coppia con un bambino in età prescolare, italianissimi. Mi hanno subito colpito per alcuni aspetti: erano fra i pochi italiani presenti, erano un po' più giovani (non molto peraltro) di me, e stonavano terribilmente come coppia rispetto agli altri avventori. I due si parlavano poco e nervosamente, stavano distanti. La madre mi ricordava qualcosa, ma non capivo cosa, però mi incuriosiva. Con i giorni, poi, mi sono reso conto: il bisogno di controllo, l'assenza di empatia verso il compagno ed il figlio, l'ossessione della vita basata su regole (sia essa nel fare il bagno, nel giocare, nel decidere il percorso della giornata), il colore dei capelli e le lentiggini di abbronzatura sul seno, tutto mi ricordava lo stridore fra quello che cercavo (la sintonia delle altre coppie) e la sensazione di continua sospensione disarmonica di un rapporto che non funzionava più, o forse non aveva mai funzionato veramente.

Anche quest'anno mi sono detto "l'anno prossimo non sarò solo in un posto come questo", sapendo però che non basta essere in compagnia fisica di qualcuno per sentirsi in due, per poter fare il bagno assieme abbracciati.


giovedì 6 agosto 2015

L'energia del mare

C'è una strana aria quest anno. In passato, durante queste giornate, si percepiva il friccicore della partenza imminente. "Dove vai questa volta?", "Che bello, vorrei andarci pure io, magari l'estate prossima!", "Ci vediamo a settembre".

Invece mi sembra che questa volta tutto si svolga con meno enfasi, meno emozione da sabato del villaggio. I colleghi partono alla spicciolata, quasi senza il sorriso sulle labbra che sottolinea il piacere che si sta pregustando. Gli amici, spesso con situazioni complesse da gestire dal punto di vista familiare-sentimentale, quasi si scherniscono e parlano di vacanze al risparmio. Altri amici fanno la battaglia fra costi, impegni, figli, litigi, convergendo su scelte che non faranno la felicità di nessuno, rischiando di diventare, al contrario, fonte di nuove discussioni.

I telegiornali parlano di un Luglio sopra le attese per gli albergatori, ma io ho incontrato lo stesso traffico di Giugno, e non ho avuto alcuna difficoltà a trovar posto nel weekend di due settimane fa al mare. La sensazione, invero, è che le vacanze siano sempre più complicate da organizzare, in termini economici e non solo.

Nonostante tutte le mie speranze ed i propositi degli anni passati, tornerò a fare le mie vacanze solitarie. Alla fine le preferisco a quelle con convivenze forzate, con mediazioni di diverse esigenze da fare per ogni scelta. Probabilmente, da individualista quale sono, solo una profonda sintonia può superare la necessità di assenza - vacanza appunto - che provo. Per questo le poche esperienze post adolescenziali di vacanze con amici si sono spesso rivelate un disastro: in quei quindici giorni non ho voglia di fare ciò che faccio nei rimanenti 350, cioè trovare un compromesso, un punto di equilibrio. Rare volte ho avuto la fortuna di avere amici con cui riconoscersi in sintonia durante la vacanza (l'ultima recentemente), e amici di questo tipo son veramente rari.

Quindi mi aspetta il Meltemi, sulle coste riarse di Creta. Le pinne e la maschera sono già li, la consapevolezza di essere in armonia con me stesso, anche se è un'armonia non completa, mi ripaga di vacanze trascorse in apparente compagnia ma popolate da tensioni laceranti.


lunedì 3 agosto 2015

Dopo un anno

Mi arriva una mail. Poche righe, quella importante recita "Permangono le condizioni per proseguire la sorveglianza attiva".

Chiudo la mail, e tiro un sospiro di sollievo. Gli esami fatti in autonomia, e quelli dello studio verticale effettuati in ospedale, hanno dato finalmente buoni risultati. Dopo che durante l'inverno e la primavera, fra le varie vicissitudini di salute e non, sembrava che stessi scivolando su di una brutta china, ora finalmente la situazione sembra essere tornata sotto controllo.

L'esperienza della malattia mi ha toccato non poco. Quando si vive una malattia che può diventare letale, le cose prendono un'altra prospettiva. Ti rendi conto di cosa ti aspetti dalla vita, e di cosa non ti vorresti trovare ad affrontare. Purtroppo ho sentito tanti racconti da parte di persone che, entrate nel tunnel del cancro, si rendono conto di non avere l'appoggio di coloro che sono loro vicini. A volte scoprono la loro fuga.

Io ero convinto di essere nelle condizioni ideali, con una compagna che aveva a sua volta vissuto un percorso simile, e che quindi "sapeva" bene cosa si provava in quei frangenti, conosceva le fragilità ed il bisogno di avere qualcuno accanto che condividesse i timori di quanto stava accadendo. Questa convinzione era così forte che sul momento non mi resi conto di quello che stava succedendo realmente.
E' passato più di un anno da allora. La compagna è diventata ex, fra errori reciproci. Nel lavoro di elaborazione emotiva della chiusura di questo rapporto sono emersi tanti tasselli che non avevo riconosciuto durante la relazione. Solo ora ho raggiunto la consapevolezza che è stato significativo non essere stata fisicamente al fianco del compagno malato di cancro nei momenti salienti di questa malattia, durante la biopsia o quando c'era da parlare con gli specialisti per decidere la terapia da adottare. Erano momenti fondamentali di condivisione, e non ci sono stati, con scuse di lavoro per la biopsia, e neppure quelle dopo.

Ci è voluto molto tempo per vedere le cose in modo più oggettivo. Fossi stato meno coinvolto mi sarei reso conto che tutto era già finito a quel tempo. Era così chiaro...


domenica 26 luglio 2015

Si muore un po' per poter vivere

Ho approfittato di un venerdì da un cliente al mare, e mi sono fatto un weekend in Toscana. Amo quella regione, quel miscuglio di colline verdi e ocra, con il mare sullo sfondo, e quella cultura diffusa del mangiar bene, della ricerca della qualità nel cibo e nel vino. Per questo mi piace trovare nuovi posti, nuovi ristoranti, conoscere nuove persone e godere di questa grande restaurazione che è il cibo di qualità prodotto con criteri moderni.

Ho avuto la fortuna di partecipare ad una cena di degustazione presso questo meraviglioso ristorante, dove una chef di gran talento e di enorme impegno nella qualità della materia prima mi ha fatto gioire di una cena che si è protratta fino all'una di notte, fra piatti sublimi, presentazioni di giovani produttori entusiasti della loro attività, sia essa rivolta alla viticultura piuttosto che alla casearia o alla produzione di farine con semi antichi. Una festa per gli occhi, e per le papille gustative.

Mi hanno colpito questi giovani imprenditori, toscani e non. Un produttore di vino, un ragazzo al massimo quarantenne di Milano, con pochi ettari di vigna sopra Suvereto, crea un vino strepitoso, con forte acidità che fornisce quella freschezza tanto apprezzata da me nella calda notte della cena, accompagnando un antipasto che è geniale per l'idea (macarons di pesce povero accompagnato da una stracciata di pesce bianco sodo e formaggio) e per l'armonia di gusti. Una produttrice di formaggi cagliati rigorosamente da latte crudo, senza alcun additivo chimico (il sapore era un esplosione, soprattutto sul pecorino Merlinguzza, che non finiva mai di stupirmi per ciò che raccontava in bocca, accompagnando anime di muggine affumicato che sembravano nate per viverci assieme). Giovani entusiasti di ciò che facevano, della qualità straordinaria dei loro prodotti, che peraltro è difficile trovare appena pochi chilometri fuori da questa landa benedetta.

Seduto al tavolo, con dei commensali conosciuti al momento, mi godevo questa meraviglia, e riflettevo come tante cose mi mancano delle affinità avute con alcune donne che ho amato, e come la misteriosa alchimia, che si chiama amore, sia composta anche di questo. Son diventato intollerante, oramai: una donna che non sappia godere del buon cibo, del buon bere, del sesso fatto non solo di ginnastica ma soprattutto di emozioni e trasgressione,  e che non ami i gatti non fa per me. Andrà benissimo per qualcun altro, ma so già che con me non troverà la sintonia.

Il guaio è quando la trovi, e poi non funziona ugualmente, perché queste cose, purtroppo, non son sufficienti. E così, davanti all'Oro di Caiarossa che chiudeva la cena, mi son trovato a sorridere a me stesso. Anche se fa male, tanto, meglio solo che accompagnato in una asimmetria devastante.


mercoledì 22 luglio 2015

Non si ama abbastanza

M. mi manda un whatsapp raccontandomi che sua figlia sta attraversando un brutto momento con il marito. Non sono esattamente la persona più indicata per questo tipo di problemi, avendo nel mio curriculum un divorzio ed una rottura di un rapporto al quale tenevo tantissimo ma che non son riuscito a preservare (forse perché bisogna essere in due per farlo? chissà), però rispondo alla sua muta richiesta di scambio di opinioni e vado a prendere una cedrata da lei.

Si, può sembrare alquanto strana sta cosa, di M. avevo parlato anni fa qui. Un'amicizia valica anche le differenze significative d'età (suo figlio ha pochi anni meno di me) e si nutre di stima, di rispetto, di comprensioni che si possono assimilare a complicità, anche se ben diverse da quelle di due persone che si amano. Con M. abbiamo visto mostre, discusso di politica, litigato sui massimi sistemi e su come coltivare i fiori. Mi ha raccontato parte della sua vita, e io parte della mia. Ha assistito alla mia storia, ai miei sforzi inutili per non farla finire, e ai sensi di colpa di cui mi sono nutrito. Mi è stata vicina senza giudicare, cercando di darmi il punto di vista suo, ma senza imporlo.

Mi parla di sua figlia, di suo marito. Dei problemi che sembrano esserci. La figlia che perde il lavoro, ricco e di soddisfazione, e non accetta un ripiego, avventurandosi in un'attività impegnativa ma senza riscontro economico. Il marito che le rinfaccia di essere "choosy", di non contribuire a far avanzare la baracca. Sottotraccia il timore di non riuscir da solo, e la gelosia di non essere anche lui libero di poter scegliere in base all'appagamento, ma costretto a guardare solo all'aspetto economico. In mezzo le cattiverie, le ripicche, le frasi sbagliate dettate dall'ira, dalla frustrazione, dal non voler ammettere una cosa di cui, in fondo, ci si vergogna perché mette a nudo la propria fragilità.

Via via che M. mi racconta sento montare dentro di me l'angoscia di un rapporto che ha tanto di buono dentro, e che si butta via per mancanza di comunicazione da parte di entrambi. Rivedo la mia relazione, e scorgo tanti parallelismi. Riconosco gli errori che ho, che abbiamo commesso insieme, due orgogliosi e testardi che piuttosto di fare un passo ed ammettere di non essere "perfetti" hanno rovinato tutto. Non voglio che succeda anche a loro, è evidente che hanno tante cose che li uniscono ancora fra loro, amore e figli.

Sommessamente spiego a M. che lei può fare qualcosa: entrambi la ascoltano, vedono nella sua ruvida intelligenza un riferimento da ascoltare. Le dico che avere qualcuno che sappia far vedere le cose da fuori è importante (un altro mio errore non averlo cercato quando era tempo), ma ancora più importante è saper mostrare che, quando ci sono problemi, si possono superare solo insieme, con la consapevolezza delle reciproche colpe (non stanno mai tutte da una sola parte, e l'autoassoluzione totale è solo un modo di non voler affrontare il problema) e soprattutto con il perdono, che non cancella ciò che è stato, ma è l'unico modo per dire: "quel che è successo non può essere cambiato, ma da qui ripartiamo. Resterà un segno, che ad ondate si ripresenterà come un'ombra, ma solo perdonando ci diamo fiducia reciproca, anche contro la razionalità".

M. mi guarda, capisce, e mi dice: bisogna essere in due. Uno può commettere un errore, ma bisogna ripararlo assieme, altrimenti non è amore. Se non si perdona - anche al di la della razionalità e delle paure - è vero, non si ama abbastanza.


giovedì 16 luglio 2015

Gli uomini cambiano auto

Spesso le donne, quando chiudono una storia d'amore, cambiano pettinatura. Colore di capelli, taglio, qualunque cosa. E' un segno, un'esibizione di cambiamento.
Possono cambiare atteggiamento (ne parlavo stamattina con una nuova amica, qualcuno direbbe una nuova groupie), modo di porsi, tranquille signore trasformarsi in belve, oppure rinchiudersi nel loro guscio e vivere il lutto. Quelle più attive si lanciano in un trasloco.

Gli uomini, si dice, fanno diverso. Magari una serata di sbronza con gli amici. La ricerca del chiodo scaccia chiodo. Una trombata scacciapensieri. Una corsa in moto. Un lancio in parapendio. I disperati cambiano lavoro.

Oppure cambiano auto.



Quelli più persi magari vanno pure a lavorare da chi costruisce l'auto che hanno comprato. Un modo di sublimare alquanto strano

mercoledì 15 luglio 2015

Do Re bemolle

Diciott'anni ancora da compiere. Londra. La notte di San Lorenzo, il pub, la Guinness. La vita che si presenta. Amici, amiche.

Girare per la città. Ridere, scherzare. Guardare quella ragazza dai polpacci troppo grossi. Quell'altra dal corpo spettacolare. Trovarsele entrambe al cinema sedute al mio fianco, le loro mani addosso finché si accorgono l'una dell'altra.

Il vecchio college, pavimenti di legno che scricchiolano. Stanze ampie. La cappella con un pianoforte accordato e decente, ma soprattutto con una collezione di spartiti interessanti. Beethoven. Chiaro di luna. Patetica. Appassionata. La musica nelle dita. Comincio a studiare. A diciott'anni si impara veloce, le dita non sanno il corpo delle donne, ma sanno molto bene la tastiera. I pallini neri entrano nelle mani, escono suoni. Escono emozioni. La ragazza dal corpo spettacolare non capisce, e io non capisco il suo corpo. La ragazza dai polpacci grossi capisce, e mi insegna a capire.

La luce della notte che entra dalla finestra aperta, il muro di mattoni rossi di fronte. Lei che si muove adagio sopra di me. Un mondo nuovo che scopro. Un mondo che si muove diversamente ma insieme ai pallini neri sul pentagramma. Si cammina nella notte. Si guardano gli occhi. Non solo quelli.

Sbaglio i tempi, stono. C'è così tanta differenza fra lo spartito, i tasti bianchi e neri, la pelle profumata e calda. Da un lato i passaggi tardo neoclassici d'agilità, dall'altro le scale.

Tanti anni son passati da allora, e quella stonatura la guardo con affetto. Le mani non sanno più i tasti bianchi e neri, hanno perso l'agilità della musica. Gli spartiti della vita si sono susseguiti, lasciandomi ogni volta con quel senso di vuoto e di amaro che c'è in un passaggio sbagliato, in un passaggio nel quale Do e Re bemolle fanno a pugni, incapaci di accordarsi su qualsivoglia tonalità. Eppure sembravano perfetti, in quel giro armonico iniziale, e continuo a chiedermi perché non lo sono rimasti.



domenica 7 giugno 2015

I castelli di sabbia non hanno vetrate

Il biglietto nella casella di posta, le prenotazioni a posto. Pure il caldo è arrivato. Tutto sembra procedere bene nella mia esistenza.

Entro in una nuova estate un po' più acciaccato nel fisico e nell'anima, ma desideroso come sempre della sua energia. Faccio progetti, guardo ad un futuro non molto ricco, anzi, diciamo pure abbastanza sottotraccia, ma sicuramente più sereno rispetto a mesi fa. Son successe cose, sono mancate persone, e lo smarrimento che sempre colpisce si fa ogni volta più duro, forse perché pensi che - come ti ha predetto il fantastico studio epidemiologico - potrebbe presto toccare a te. Si sono infranti progetti di vita a cui tenevo moltissimo, ed ora mi sento meno disposto a condividere, forse perché più fragile, forse perché tutto ha dimostrato che la condivisione non è solo dare, ma anche saper accogliere, e la sintonia su questo è così difficile da essere forse impossibile, e la sua verifica troppo dolorosa ancora.

Mi resta il bello, il viaggio, il gusto, la musica, l'amicizia. Forse non è tutto quello a cui aspiravo, ma probabilmente è ciò che mi spetta. E questo mi deve bastare.