venerdì 22 aprile 2016

Motivazioni

Avevo sempre sostenuto di non essere in grado di mettermi a dieta. Non solo, su questa assunzione avevo costruito tutta una lunga e raffinata teoria, basata sulla constatazione che l'età, un maligno, gli extraterrestri avessero cambiato il mio metabolismo e costretto il mio destino su di un binario "da forme tonde", guardando pensoso la mia pancia.

In realtà stavo cullandomi nell'ennesima storia che mi raccontavo, fatta apposta per giustificare la mia apatia, la mia pigrizia. Una pigrizia vera nel campo della dieta, del movimento, della vita intera. Quel ripetersi "ma si, dai, che vuoi che sia", "tanto è così", e tutte queste belle frasi autoconsolatorie, come quelle che ci si racconta quando una storia finisce, per non voler guardare le cose come stanno e per giustificare sé stessi.

Non so come sia arrivata la svolta. Forse quando, dopo mesi, sono salito sulla bilancia e ho visto un numero tragicamente prossimo a 90. Forse è qualcosa che maturava da tempo, da anni, mentre mi chiedevo che fare della mia vita, se continuare a seguire gli eventi oppure se cercare di guidarli. So che ad un certo punto ho detto basta. Sono andato dal dietologo, che incidentalmente è anche il mio medico di famiglia. Li è cominciata la battaglia: lui è un convinto sostenitore che si dimagrisce solo se si ha la motivazione, e cerca di generarla con tutte quelle metodologie che a me provocano orticaria solo a vederle, forse perché permeano la mia vita lavorativa e ne vedo la vacuità simile alle dichiarazioni di molti politici, di vecchia e nuova generazione. Eppure una verità c'è, ed è legata alla motivazione: per fare qualcosa ci vuol motivazione. Il vero problema è cercarla, sapendo che ciò che si farà sarà senza dubbio difficile, talvolta molto. Ed è allora che mi sono accorto che le vere motivazioni dipendono da come è fatta una persona, e che alcune leve funzionano a volte ed altre no. Per il peso ho deciso che non potevo più andare avanti così, il dietologo poteva cianciare ciò che voleva, ma ciò che desideravo io era solo un metodo, una ricetta: come fare per calare di peso, possibilmente il più alla svelta possibile perché se si deve soffrire, almeno che sia per poco.
Soppresso tutto: aperitivi, vino, formaggi, stuzzichini. Quantità modeste. Una portata a pranzo, una a sera. Movimento. Niente sgarri. 7 chili in 3 settimane, e nemmeno così tragiche come temevo. Certo, ora sogno il parmigiano, un bicchiere di vino, una patatina fritta, uno spritz. Ma so che durerà ancora per poco, il 7 come decina è lì vicino.

Ma non è stato calar di peso il vero risultato. E' stato ripigliare in mano la mia vita, rimettere della volontà in quello che faccio. E' stato trovare che posso dire di no, anche a me stesso, e quindi anche agli altri. E' stato scoprire che per fare qualcosa bisogna volerlo veramente, ed impegnarsi, sapendo anche di star male. Qualcosa che avevo dimenticato, o solo ricordato quando fra due modelli di star male avevo scelto quello meno doloroso.


lunedì 11 gennaio 2016

Peperoni difficili

Abbandonata l'accidia che mi aveva attanagliato lo scorso anno, ho ripreso la mia vita culturale: concerti, teatro, mostre. Sicché qualche sera fa sono incappato in una commedia teatrale nuova: non un classico ma un testo scritto da un giovane autore, che è anche attore e regista. L'opera si intitola "Peperoni difficili", e l'autore è Rosario Lisma.

Un po' prevenuto, ma rinfrancato dalle ottime recensioni, sono andato a vedere la pièce, e ne sono rimasto colpito. Un teatro essenziale, fatto di quattro attori (difficili da sentire in quanto non amplificati, e la sala non era il massimo quanto ad acustica) ed una sola scenografia. Il teatro minimalista che può permettersi chi debutta con un'opera nuova, ma anche accordato al minimalismo della storia che si vuole raccontare. Ed in effetti la storia quasi non c'è: un paio di giorni di quattro persone comuni, apparentemente perse nella loro nullità, eppure tutte - in un modo o nell'altro - pervase dal demone della perfezione. Il prete, umile prete di paese in una povera canonica, a caccia della santità ma soprattutto del riscatto verso la perfezione incarnata - ai suoi occhi - dalla sorella. Lei, bella donna che racconta con umiltà la sua esperienza missionaria in Africa, da dove è fuggita a causa della guerra, che battaglia con la propria visione di santità che comprende il martirio dal quale è fuggita, ma esclude la fisicità del rapporto con l'altro sesso che però pervade sottilmente i suoi pensieri. Il terzo personaggio rappresenta il fallito - calciatore scarso, allenatore di squadretta di paese, mollato dalla moglie che gli nega persino di vedere il figlio - che ricerca la sua perfezione nell'accettazione degli altri, caricandosi di sensi di colpa per tutti. Il quarto è il fratello spastico dell'allenatore, intelligente, brillante, colto, un uomo di successo che ricerca la sua perfezione nel ignorare la sua malattia, imponendo anche agli altri di non menzionarla. Quattro ricerche della perfezione diverse, quattro fallimenti fintanto che ciascuno si ostina a non accettare sé stesso, il proprio limite, la propria natura. Il prete accetta di essere sé stesso senza doversi confrontare con modelli non suoi, l'allenatore accetta che la moglie abbia la sua vita e cerca di valorizzare sé stesso, il fratello spastico scende a patti con la sua malattia. L'unica che non trova una soluzione è la sorella del prete, che non transige dalle sue posizioni e, letteralmente, sparisce dalla scena dopo aver regalato a tutti una chiave per superare i propri ostacoli.

Una trama apparentemente pesante - e qui la grande arte dell'autore - resa leggera e interessante sia dalla leggerezza della recitazione che dalla capacità di scatenare un sorriso ogni trenta secondi, facendo ridere dei limiti, dei tic e dei falsi miti della vita di ciascuno.

Lo consiglio vivamente, per divertirsi e riflettere. 


domenica 3 gennaio 2016

Due misure

E' tutto il giorno che mi passa per la testa quel battito, bom - bam bom - bam bom - bam bom, clarinetti timpani violoncelli e violini, due misure che sono l'incipit del Rach 3 (quello di Shine, per intenderci). Queste due battute sono completamente avulse dal tema - che entra subito dopo con il pianoforte - e dalle sue evoluzioni, nonché dal tema femminile che subentra pagine dopo. Ho cercato nello spartito dei richiami a quel battito, ma solo rari accenni di ritmo e non di tema si ritrovano qua e la negli accompagnamenti, nei riempimenti, così labili che non me n'ero mai reso conto all'ascolto.

Non c'entrano nulla, quindi, quelle due battute, ripetute solo nel ritorno del tema principale prima della chiusa, seguendo l'impostazione della struttura a sonata nonostante stiamo parlando di un brano del 1909. Eppure quelle note ripetute per due misure mi hanno sempre affascinato. La loro presenza apparentemente aliena al resto del materiale del concerto è curiosamente fondamentale per la sua introduzione. Un battito cardiaco, un respiro affannoso, quello del pianista che si avventura in una partitura che risulta difficile anche solo ad essere seguita - non letta - da chi non è un virtuoso del pianoforte. Di sicuro un incipit russo - in tutti i temi si sente chiaramente il folklore russo, materia prima dei grandi tardoromantici di quella regione, primo fra tutti Tchaikovskj - un ricordo di slitte, forse, chissà.

Ma quel battito mi è entrato dentro. Da sempre, da quando comprai il primo vinile di questo concerto, subito l'esecuzione di riferimento (non lo dico io, lo dice Rachmaninov stesso, e gli credo), subito la magia di un autore che è facile nel creare le emozioni, ma che è ricco di spessore, mistero e stupore.