sabato 20 luglio 2013

Un bambino ricorda

Sono nato in una landa musicalmente fortunata. Non solo musicalmente, a dire il vero: la terra della mia campagna non l'ho vista mai più da nessuna parte. Guareschi, che se ne intendeva essendo pure lui di quell'area, diceva che bastava sputarci che questa produceva ogni ben di dio.
Questa fertilità agricola corrisponde alla fertilità musicale. Dalla mia città venne Monteverdi, il padre dell'Opera. Poco dopo le grandi dinastie dei liutai, i Guarneri, gli Stradivari. Poi Ponchielli e, praticamente coevo, Verdi.
Si, lo so. Verdi è di Busseto, provincia di Parma. Ma Busseto dista da Cremona 23km, da Parma 46. E' vero, in mezzo c'è il grande fiume, che separava popolazioni distanti poche chilometri segnandole di differenze sostanziali. Alcune cose però assimilano le due sponde: il piacere del cibo, il caldo umido, l'odore della terra sotto il sole. Queste cose modellano l'animo, e l'animo modella la musica.

Sono abbastanza vecchio da ricordare le osterie, quelle vere, quelle con i tavoloni di legno dalla dubbia pulizia, dai bicchieri di lambrusco che li segnano, dal povero cibo saporito che veniva servito. Dalla disperazione di essere l'unico svago concesso a molti dei loro frequentatori, svago fatto di briscole, di ciucche di vino, di bestemmie orrende, e di canti. Si, perché dopo un po' di giri di lambrusco le gole si scaldavano, e questi uomini consumati dalle fatiche dei campi, molti dei quali non avevano finito le elementari e lavoravano da prima di essersi cominciati a radere il viso, cominciavano a cantare l'opera, con una perizia ed una perfezione che noi ci sogniamo oggi.

Verdi era di quella razza lì. Era figlio di un oste di Roncole, anche lui avrà visto spettacoli simili a quelli che ricordo io, solo che si cantavano le opere settecentesche. L'opera non era più un divertimento della nobiltà: da qualche decennio era divenuta uno spettacolo popolare, soprattutto attraverso l'opera buffa, così distante dal gioco di richiami culturali dei libretti seri, basati spesso sulla mitologia o sulla storia. Verdi impara la musica rozza, quella di taverna, quella delle bande. Impara anche la musica da chiesa, sull'organo del villaggio. Gli entra nell'anima l'emozione popolare, quella dei contadini che cantano a cappella dopo essersi ben lubrificati con il vino.
Il Verdi giovane musicista che impara la musica accademica prova a scrivere opere del filone neoclassico, ma non fan parte della sua cultura. L'intuizione gli fa comprendere che il suo uditorio è rozzo e raffinato allo stesso tempo, ama il bel canto ma pure le storie che capisce, che sente. Verdi intuisce che il successo gli verrà dal fatto che questi melomani che non sanno leggere, uscendo da teatro canticchieranno le sue arie. Devono restare in mente. Devono colpire come pugni nello stomaco. Musica e testo.

Verdi era un contadino della mia terra. Attaccato ad essa, in modo viscerale. Quella terra sarà presente sempre nella sua opera, e nei suoi obiettivi. Verdi, scrivendo opere che piacevano, diventerà uno degli uomini più ricchi del suo tempo, investendo la sua ricchezza in terreni, da Busseto al grande fiume. Questa territorialità, questa sanguignità Verdi la esprime in massimo grado con la sua trilogia popolare: opere dalle storie a tinte forti, supportate da musica che si canta al primo ascolto. Apparentemente facile, talvolta come se si trattasse di brani da osteria.
Rigoletto ne è l'emblema. Storia torbida, con personaggi apparentemente semplici. Il Duca è la versione campagnola del Don Giovanni di Mozart, ma mentre quello era un raffinato viveur questi è un rozzo idiota vanesio, al di sotto della soglia minima tollerabile. Si presenta con la celebre aria "Questa o quella", creata su quel volgarissimo ritmo sincopato (che però è scritto in un raffinatissimo 6/8) che assomiglia ad un galoppo, ed un testo che più squallido non si può

Questa o quella per me pari sono
a quant'altre d'intorno, d'intorno mi vedo;
del mio core l'impero non cedo
meglio ad una che ad altra beltà.
La costoro avvenenza è qual dono
di che il fato ne infiora la vita;
s'oggi questa mi torna gradita,
forse un'altra, forse un'altra doman lo sarà,
un'altra, forse un'altra doman lo sarà.
La costanza, tiranna del core,
detestiamo qual morbo, qual morbo crudele;
sol chi vuole si serbe fidele;
non v'ha amor, se non v'è libertà.
De'mariti il geloso furore,
degli amanti le smanie derido;
anco d'Argo i cent'occhi disfido
se mi punge, se mi punge una qualche beltà,
se mi punge una qualche beltà.





Un'aria composta apposta per rimanere in mente al primo ascolto, furba. Eppure Verdi non dimentica di mostrare che lui sa scrivere musica: il ritmo viene preparato, introdotto sottotraccia nel recitarcantando che introduce all'aria. Lo si sente formarsi, quasi un corpo estraneo, un insistere di mi bemolle del flauto e dell'oboe prima in ritmo binario per poi passare al ternario della ballata. Poi, nello svolgimento dell'osceno canto, improvvisamente il colpo di genio sul "s'oggi questa mi torna gradita": una scivolata tonale proprio dove ci si aspetta uno sviluppo normale, allineato con la banalità dell'aria. E invece quelle tre note estranee, fuori tonalità, sono la firma del grande musicista, che ti dice che lui si, ha scritto un'aria per far successo, ma che se sei attento capisci che di aver a che fare con un genio.

Un grande musicista, si, e anche un uomo che capisce di teatro ed emozioni. Piega il libretto in modo da caratterizzare i personaggi in modo viscerale. Il bel Duca è uno squallido uomo, lo squallido e fisicamente ripugnante Rigoletto mostra un coraggio e una determinazione che i nobili cortigiani non hanno, nemmeno colui che lo maledice. Ma contro il destino, contro il fato nessuno può combattere: il Duca, uomo vacuo, è protetto dal suo fascino che lo salva, attraverso una donna che implora la sua salvezza (la sorella di Sparafucile) ed un'altra che dona la sua vita per lui (Gilda). E mentre lui si allontana con il suo canto da osteria ("La donna è mobile"), Rigoletto non può che scoprire l'ineluttabilità della maledizione.
Ma il capolavoro del Rigoletto è il quartetto "Bella figlia dell'amore". Ancora una volta un brano furbo, scritto per restare in mente ed essere canticchiato uscendo da teatro. Un brano difficile per i cantanti, un pezzo che sotto l'apparente semplicità nasconde una scrittura musicale molto densa. Anche teatralmente è una meraviglia (anche se non è un unicum): quattro cantanti che cantano quattro testi differenti, quattro melodie diverse, quattro stati d'animo completamente divergenti. La coppia Duca - Maddalena eseguono una schermaglia d'amore, con lui che cerca di convincere lei che civetta, mentre la coppia Gilda - Rigoletto duetta in modo molto più articolato: Gilda sostanzialmente parla al Duca, amante fedifrago, lamentandosi del dolore che lui le sta causando e non prestando attenzione a Rigoletto che cerca di convincerla che il Duca non merita affatto il suo amore, e fra sé e sé medita la vendetta. Il contrappunto fra le varie parti è articolato e complesso secondo la più fine stesura tecnica operistica, e questa raffinatezza fa a pugni con la volgarità del corteggiamento del duca. Ma ciò che più colpisce è il messaggio di incomunicabilità che fuoriesce dall'intreccio delle voci, con Gilda che urla non ascoltata verso il Duca, e Rigoletto che quasi non si sente. Questa versione che ho trovato è musicalmente straordinaria, con una Sutherland gigantesca, capace di sovrastare persino la voce di Pavarotti, e tutto ciò a 61 anni (poco credibile come Gilda, però....)



Mi rivedo nell'osteria, bambino, ascoltare un contadino non più sobrio comincia a cantare la parte del Duca, fino ad inerpicarsi in quel si bemolle che richiede un bel timbro ed un controllo da vero cantante. Non posso non pensare ad Amici Miei di Comencini, e alle zingarate che avevano questo brano come colonna sonora. Non posso non stupirmi di fronte al complesso contrappunto della partitura, e a quel mirabile equilibrio fra apparente semplicità e densità musicale. La perfezione della spuma del lambrusco, l'equilibrio fra il dolce ed il salato di una fetta di prosciutto, il sapore del gnocco fritto.

Contadini senza cultura capivano tutto dell'opera: ascoltavano con il cuore e con quello cantavano.

lunedì 15 luglio 2013

Venezia

Una città unica al mondo, irripetibile, anacronistica. Una caccia agli elementi estranei architetturali, camminare il naso in su trovando spunti gotici nel rinascimento veneziano, così unico.
Un caldo umido che mi infradicia la camicia, sempre troppo pesante.

Una Traviata ascoltata in una sala dall'acustica interessante, una soprano che non ha osato il mi bemolle finale (secondo me ce l'ha, ma l'aria condizionata era troppo forte nella sala) ma ha interpretato bene il ruolo, un tenore con un buon registro acuto, un decoroso Germont.

Una cena in una trattoria alla quale non avresti dato due lire, eppure delle sarde in saor che parlavano da sole, e il fritto di lei che è risultato delizioso anche a me.

Ma soprattutto la magia di vedere, sentire, annusare con lei.


lunedì 1 luglio 2013

Nonostante lo scippo

Sono qui


Nonostante lo scippo dello zaino. Facendo l'inventario alla guardia civil per la denuncia mi sono reso conto di quanto valore è possibile nascondere in uno zainetto. La macchina fotografica, il kindle, i ray ban, il voucher con i voli. I libri: le poesie di Neruda, l'ultimo Camilleri che mi ero tenuto per gustarmelo meglio al sole. La cintura.

Ma quella luce, quel mare, quel sole, quella libertà che si gode solo in alcuni luoghi sono riusciti d'incanto a farmi dimenticare tutto. 
Ciò che non riescono a farmi dimenticare è che questo è un sogno da condividere. E davanti ad un arroz negro nella sera fresca del sole che mi ha scaldato la pelle, vedo la sedia vuota davanti a me. 
Sarà l'ultima volta.