mercoledì 14 ottobre 2015

Flexibility and wellness - Le nuove frontiere del lavoro

Sono reduce da una convention aziendale. Uno di quegli eventi di moda fra le aziende "ricche" per "motivare" il personale. In sostanza si tratta di uno o più giorni di svago inframezzati da attività pseudo formative nell'ambito del cosiddetto "team building", ossia nel convincere persone che volentieri si eviterebbero a stare insieme convincendole pure di stare a divertirsi.

Sarà l'età o il carattere, a me queste attività sembrano sempre più forzature, e le subisco cercando di analizzare, dietro ad esse, gli aspetti sociologici e di godere dei pochi eventuali aspetti interessanti delle attività in programma.

Questa convention si è tenuta in una area molto bella, che peraltro avrei volentieri evitata a causa di recenti storie sentimentali. La terraferma alle spalle di Venezia, peraltro, è molto affascinante per le sue magioni di campagna, molte delle quali trasformate in alberghi di charme nei quali abbiamo soggiornato. Alberghi che sanno tutti di muschio e muffa antica, di vecchi armadi e stanze in penombra, ricordandomi gli odori della mia campagna, non molto diversa da questa. Cultura del bello, neoclassico ovunque, una pace nello paesaggio anche sotto la pioggerellina.

E bella, affascinante, la gita in battello dalla foce del Sile fino a San Marco, di notte. Giacca marina, a prua, la bocca aperta a gustare la fila delle briccole che tracciano la rotta, illuminate da una tenue lucina, costeggiando la meravigliosa Burano, attraversando Murano, fino a sorprendere Venezia aggirando l'istituto Morosini, le luci del Lido di fronte. E passeggiare sulla riva degli Schiavoni alla luce dei lampioni, senza l'affollamento consueto, in una notte stranamente priva di umidità (la mia schiena ringrazia!)

Ma torniamo all'aspetto sociologico della convention: il gioco a tema. Le attività di team building sono sostanzialmente tutte uguali: giochini che spopolerebbero nelle scuole primarie, conditi con una supponenza di messaggio francamente spropositata. Questa volta si voleva riflettere sulle modificazioni del rapporto dipendente-azienda. La tesi era che sempre più si desidera avere un impiego che coniughi efficacemente il benessere con l'impegno, per evitare il dualismo lavoro-piacere e trasformare la vita in un piacere-lavoro.
Ascoltavo il concetto e pensavo cosa significasse in realtà: dietro alla visione del lavoro gratificante anche sotto l'aspetto ricreativo (attività sportiva o culturale coniugata con l'ufficio) mostrata come un modo per vivere con maggior appagamento la vita produttiva, mi appariva sempre più chiaro il tentativo di frantumare i confini ben consolidati fra ore lavorative e vita personale, in un mix indefinito nel quale una si insinua nell'altra. Insomma, puoi divertirti con un po' di palestra durante la giornata (se ne avrai il tempo), in compenso assicuri una presenza anche nelle canoniche off-hours grazie alla tecnologia (telefonini, internet, pc). Il concetto della destrutturazione del lavoro nel privato e viceversa, che consente una flessibilità (termine che nel frasario contemporaneo ha valenza più che positiva, qualunque cosa significhi) sempre maggiore.

Ora, non è che voglia fare battaglie di retroguardia, ma sono convinto che lo stipendio di ciascuno debba essere commisurato a due parametri complementari: al lavoro effettuato ed ai risultati ottenuti. Entrambi devono essere proporzionati e tarati per poter garantire un soddisfacimento dell'azienda e del dipendente. La richiesta di risultati che non sono raggiungibili se non attraverso un sacrificio della propria vita privata è una costante ed una consuetudine oramai consolidata; la mia sensazione è che questa apparente new age del benessere nel lavoro altro non sia che un modo per giustificare un'intrusione ancora più pesante nel privato dell'attività lavorativa, mascherandolo da benefit di azienda illuminata.



giovedì 8 ottobre 2015

E Susanna non vien

E' il titolo di un bellissimo saggio, sulla trilogia dapontiana delle opere di Mozart, che mi regalò mesi fa Roceresale, sorridendo sul doppio senso della frase. Ma prima ancora è l'inizio di un recitativo delle Nozze di Figaro, appunto una delle opere della citata trilogia.



La tesi di questo saggio è che esiste un filo conduttore fra queste grandi opere, la passione amorosa espressa nella declinazione del piacere della schermaglia (Così fan tutte), nel turbine della follia fuori controllo fino a diventar criminale (Don Giovanni), e nella passione pura che riporta il disordine all'ordine (le Nozze di Figaro). A fianco di questo fil rouge, ci sono dei sottotemi comuni (ruoli simili con importanze diverse - ad esempio il conte d'Almaviva e Don Giovanni rappresentano il libertino con aspetti di compulsività diversi) che intrecciano le tre opere in modo indissolubile.

Delle tre, amo il Don Giovanni in modo particolare. Il saggio mi ha fatto nascere il desiderio di ascoltare con attenzione diversa anche le altre, sicché non mi sono lasciato scappare l'occasione, qualche giorno fa, di un canale di rappresentazione che avevo visto pubblicizzato ma non avevo mai provato: l'Opera al Cinema. Ho visto un cartellone che reclamizzava la diretta dal Covent Garden delle Nozze, in un cinema della mia città, e ci sono andato.

Come ho scritto in un recente post, la tecnologia moderna consente di fruire dell'Opera in modi diversi e nuovi, e di interpretarla in forme altrettanto varie. Una ripresa diretta di una rappresentazione operistica in teatro apparentemente non è altro che un reportage di un evento consueto, con la differenza di offrire a più persone la possibilità di partecipare allo spettacolo. Quella a cui ho assistito invece mi è sembrata un'intelligente applicazione della tecnologia per fruire in modo diverso della stessa messa in scena che i fortunati londinesi seduti al Covent Garden stavano godendosi.

Chi siede a teatro ha, per questioni fisiche, una visione del palcoscenico "globale" e, fatto salvo l'uso dei binocoli da teatro, non ha modo di apprezzare appieno le espressioni, la recitazione, l'aspetto fisico legato all'attorialità del cantante. Questa limitazione ha fatto si che in passato i cantanti d'opera fossero delle statuine poste sul palco, animate da movimenti standardizzati, e si concentrassero fondamentalmente sull'espressione vocale. La ripresa cinetelevisiva invece permette di "andare" sul palco, fruire delle espressioni, godere dell'aspetto recitativo del corpo. La generazione recente dei cantanti d'opera ha imparato che non basta più una gran voce, bisogna essere allo stesso tempo dei bravi attori, sapersi muovere, occupare la scena, recitare, mentre ci si sta concentrando sull'emissione vocale. Un ostacolo nuovo, una sfida impegnativa.
Lo spettacolo a cui ho assistito ha evidenziato questa caratteristica: ho visto una gran recita, quasi cinematografica, a corredo di un'esecuzione di alto livello dal punto di vista del canto. Mi è rimasto un dubbio, che è quasi certezza, ossia che la recita non sia stata effettuata cantando, e che si sia mixato in un secondo tempo voce e presa scenica. Ho avuto la sensazione che talvolta le labbra non fossero sincrone con il canto, come se i cantanti stessero recitando muovendo le labbra mentre ascoltavano l'opera preregistrata cantata da loro. Questo spiega la loro capacità di saltare a destra e a manca mentre cantano a squarciagola, uno sforzo difficilmente sopportabile anche da giovani cantanti come loro.

Benché qualche purista possa storcere il naso, io non sono contrario a questo approccio. E' una fase tecnica, come lo è la registrazione discografica: possibilità espressive nuove altrimenti precluse dalla rappresentazione classica. Per chi assiste è ben diverso ascoltare una grande voce che recita (l'opera è teatro in musica, il buon Monteverdi lo concepiva come recitar cantando), piuttosto che ascoltarla e basta, come se fosse un disco vivente.

Quindi grande spettacolo, a mio avviso. Un'esperienza che mi è piaciuta, ed un cast di cantanti di tutto riguardo (dal Covent Garden non ci si può aspettar di meno, peraltro).
Il trailer qui sotto da un'idea di quello che significa unire scena cinematografica a belcanto.