mercoledì 16 dicembre 2015

Esto nobis praegustatum

Non è una dimostrazione di acuta sensibilità, di certo. Però quando ascolto certa musica, soprattutto cantata, mi commuovo, mi metto a piangere. Oramai conosco quali sono i brani che mi provocano questa reazione, e metto in campo tutte le strategie per mascherare questo fenomeno.

Perché mi succede questo non lo so. Non c'è una ragione che riesca a descrivere, ma è come se, durante quel preciso ascolto, mi sentissi preso da una specie di sindrome di Stendhal, come se avessi accesso ad un passaggio nascosto verso un universo di emozioni che altrimenti non percorro, e questa visione mi provoca una commozione non controllabile.

So ben riconoscere i tecnicismi dei passaggi musicali che generano questa sensazione: il crescendo ad ondate di Brahms (ed il lento incedere di Wagner), i nove minuti nove della fine del primo atto della Traviata - un misto di emozione legato alle suggestioni del testo coniugate al miracolo che si rinnova della creazione della magia del mi bemolle sovracuto (mi scendono le lacrime solo ad immaginarlo nella mia mente) - un preludio di Chopin (uno dei pochissimi casi nei quali mi emozionavo ascoltandomi suonare). Misteriose chiavi che aprono porte di emozione, e forse non è neppur sensato chiedersi perché queste lo facciano.

Ma lo specchio della barba, l'altra mattina, mi ha fatto una domanda che mi ha turbato. Perché le emozioni forti sembrano essere confinate tutte in questo ambito nella mia esistenza? Perché mi sento perdere nel nulla solo quando il coro esplode, quando la voce del soprano nell'Ave Verum si sviluppa cristallina nel suo arabesco perfetto? Possibile che riesca a provare emozioni solo in questo ristretto ambito, e sia un'insensibile persona nel resto della mia vita?