Avevo sempre sostenuto di non essere in grado di mettermi a dieta. Non solo, su questa assunzione avevo costruito tutta una lunga e raffinata teoria, basata sulla constatazione che l'età, un maligno, gli extraterrestri avessero cambiato il mio metabolismo e costretto il mio destino su di un binario "da forme tonde", guardando pensoso la mia pancia.
In realtà stavo cullandomi nell'ennesima storia che mi raccontavo, fatta apposta per giustificare la mia apatia, la mia pigrizia. Una pigrizia vera nel campo della dieta, del movimento, della vita intera. Quel ripetersi "ma si, dai, che vuoi che sia", "tanto è così", e tutte queste belle frasi autoconsolatorie, come quelle che ci si racconta quando una storia finisce, per non voler guardare le cose come stanno e per giustificare sé stessi.
Non so come sia arrivata la svolta. Forse quando, dopo mesi, sono salito sulla bilancia e ho visto un numero tragicamente prossimo a 90. Forse è qualcosa che maturava da tempo, da anni, mentre mi chiedevo che fare della mia vita, se continuare a seguire gli eventi oppure se cercare di guidarli. So che ad un certo punto ho detto basta. Sono andato dal dietologo, che incidentalmente è anche il mio medico di famiglia. Li è cominciata la battaglia: lui è un convinto sostenitore che si dimagrisce solo se si ha la motivazione, e cerca di generarla con tutte quelle metodologie che a me provocano orticaria solo a vederle, forse perché permeano la mia vita lavorativa e ne vedo la vacuità simile alle dichiarazioni di molti politici, di vecchia e nuova generazione. Eppure una verità c'è, ed è legata alla motivazione: per fare qualcosa ci vuol motivazione. Il vero problema è cercarla, sapendo che ciò che si farà sarà senza dubbio difficile, talvolta molto. Ed è allora che mi sono accorto che le vere motivazioni dipendono da come è fatta una persona, e che alcune leve funzionano a volte ed altre no. Per il peso ho deciso che non potevo più andare avanti così, il dietologo poteva cianciare ciò che voleva, ma ciò che desideravo io era solo un metodo, una ricetta: come fare per calare di peso, possibilmente il più alla svelta possibile perché se si deve soffrire, almeno che sia per poco.
Soppresso tutto: aperitivi, vino, formaggi, stuzzichini. Quantità modeste. Una portata a pranzo, una a sera. Movimento. Niente sgarri. 7 chili in 3 settimane, e nemmeno così tragiche come temevo. Certo, ora sogno il parmigiano, un bicchiere di vino, una patatina fritta, uno spritz. Ma so che durerà ancora per poco, il 7 come decina è lì vicino.
Ma non è stato calar di peso il vero risultato. E' stato ripigliare in mano la mia vita, rimettere della volontà in quello che faccio. E' stato trovare che posso dire di no, anche a me stesso, e quindi anche agli altri. E' stato scoprire che per fare qualcosa bisogna volerlo veramente, ed impegnarsi, sapendo anche di star male. Qualcosa che avevo dimenticato, o solo ricordato quando fra due modelli di star male avevo scelto quello meno doloroso.
Il mondo a testa in giù
venerdì 22 aprile 2016
lunedì 11 gennaio 2016
Peperoni difficili
Abbandonata l'accidia che mi aveva attanagliato lo scorso anno, ho ripreso la mia vita culturale: concerti, teatro, mostre. Sicché qualche sera fa sono incappato in una commedia teatrale nuova: non un classico ma un testo scritto da un giovane autore, che è anche attore e regista. L'opera si intitola "Peperoni difficili", e l'autore è Rosario Lisma.
Un po' prevenuto, ma rinfrancato dalle ottime recensioni, sono andato a vedere la pièce, e ne sono rimasto colpito. Un teatro essenziale, fatto di quattro attori (difficili da sentire in quanto non amplificati, e la sala non era il massimo quanto ad acustica) ed una sola scenografia. Il teatro minimalista che può permettersi chi debutta con un'opera nuova, ma anche accordato al minimalismo della storia che si vuole raccontare. Ed in effetti la storia quasi non c'è: un paio di giorni di quattro persone comuni, apparentemente perse nella loro nullità, eppure tutte - in un modo o nell'altro - pervase dal demone della perfezione. Il prete, umile prete di paese in una povera canonica, a caccia della santità ma soprattutto del riscatto verso la perfezione incarnata - ai suoi occhi - dalla sorella. Lei, bella donna che racconta con umiltà la sua esperienza missionaria in Africa, da dove è fuggita a causa della guerra, che battaglia con la propria visione di santità che comprende il martirio dal quale è fuggita, ma esclude la fisicità del rapporto con l'altro sesso che però pervade sottilmente i suoi pensieri. Il terzo personaggio rappresenta il fallito - calciatore scarso, allenatore di squadretta di paese, mollato dalla moglie che gli nega persino di vedere il figlio - che ricerca la sua perfezione nell'accettazione degli altri, caricandosi di sensi di colpa per tutti. Il quarto è il fratello spastico dell'allenatore, intelligente, brillante, colto, un uomo di successo che ricerca la sua perfezione nel ignorare la sua malattia, imponendo anche agli altri di non menzionarla. Quattro ricerche della perfezione diverse, quattro fallimenti fintanto che ciascuno si ostina a non accettare sé stesso, il proprio limite, la propria natura. Il prete accetta di essere sé stesso senza doversi confrontare con modelli non suoi, l'allenatore accetta che la moglie abbia la sua vita e cerca di valorizzare sé stesso, il fratello spastico scende a patti con la sua malattia. L'unica che non trova una soluzione è la sorella del prete, che non transige dalle sue posizioni e, letteralmente, sparisce dalla scena dopo aver regalato a tutti una chiave per superare i propri ostacoli.
Una trama apparentemente pesante - e qui la grande arte dell'autore - resa leggera e interessante sia dalla leggerezza della recitazione che dalla capacità di scatenare un sorriso ogni trenta secondi, facendo ridere dei limiti, dei tic e dei falsi miti della vita di ciascuno.
Lo consiglio vivamente, per divertirsi e riflettere.
domenica 3 gennaio 2016
Due misure
E' tutto il giorno che mi passa per la testa quel battito, bom - bam bom - bam bom - bam bom, clarinetti timpani violoncelli e violini, due misure che sono l'incipit del Rach 3 (quello di Shine, per intenderci). Queste due battute sono completamente avulse dal tema - che entra subito dopo con il pianoforte - e dalle sue evoluzioni, nonché dal tema femminile che subentra pagine dopo. Ho cercato nello spartito dei richiami a quel battito, ma solo rari accenni di ritmo e non di tema si ritrovano qua e la negli accompagnamenti, nei riempimenti, così labili che non me n'ero mai reso conto all'ascolto.
Non c'entrano nulla, quindi, quelle due battute, ripetute solo nel ritorno del tema principale prima della chiusa, seguendo l'impostazione della struttura a sonata nonostante stiamo parlando di un brano del 1909. Eppure quelle note ripetute per due misure mi hanno sempre affascinato. La loro presenza apparentemente aliena al resto del materiale del concerto è curiosamente fondamentale per la sua introduzione. Un battito cardiaco, un respiro affannoso, quello del pianista che si avventura in una partitura che risulta difficile anche solo ad essere seguita - non letta - da chi non è un virtuoso del pianoforte. Di sicuro un incipit russo - in tutti i temi si sente chiaramente il folklore russo, materia prima dei grandi tardoromantici di quella regione, primo fra tutti Tchaikovskj - un ricordo di slitte, forse, chissà.
Ma quel battito mi è entrato dentro. Da sempre, da quando comprai il primo vinile di questo concerto, subito l'esecuzione di riferimento (non lo dico io, lo dice Rachmaninov stesso, e gli credo), subito la magia di un autore che è facile nel creare le emozioni, ma che è ricco di spessore, mistero e stupore.
Non c'entrano nulla, quindi, quelle due battute, ripetute solo nel ritorno del tema principale prima della chiusa, seguendo l'impostazione della struttura a sonata nonostante stiamo parlando di un brano del 1909. Eppure quelle note ripetute per due misure mi hanno sempre affascinato. La loro presenza apparentemente aliena al resto del materiale del concerto è curiosamente fondamentale per la sua introduzione. Un battito cardiaco, un respiro affannoso, quello del pianista che si avventura in una partitura che risulta difficile anche solo ad essere seguita - non letta - da chi non è un virtuoso del pianoforte. Di sicuro un incipit russo - in tutti i temi si sente chiaramente il folklore russo, materia prima dei grandi tardoromantici di quella regione, primo fra tutti Tchaikovskj - un ricordo di slitte, forse, chissà.
Ma quel battito mi è entrato dentro. Da sempre, da quando comprai il primo vinile di questo concerto, subito l'esecuzione di riferimento (non lo dico io, lo dice Rachmaninov stesso, e gli credo), subito la magia di un autore che è facile nel creare le emozioni, ma che è ricco di spessore, mistero e stupore.
mercoledì 16 dicembre 2015
Esto nobis praegustatum
Non è una dimostrazione di acuta sensibilità, di certo. Però quando ascolto certa musica, soprattutto cantata, mi commuovo, mi metto a piangere. Oramai conosco quali sono i brani che mi provocano questa reazione, e metto in campo tutte le strategie per mascherare questo fenomeno.
Perché mi succede questo non lo so. Non c'è una ragione che riesca a descrivere, ma è come se, durante quel preciso ascolto, mi sentissi preso da una specie di sindrome di Stendhal, come se avessi accesso ad un passaggio nascosto verso un universo di emozioni che altrimenti non percorro, e questa visione mi provoca una commozione non controllabile.
So ben riconoscere i tecnicismi dei passaggi musicali che generano questa sensazione: il crescendo ad ondate di Brahms (ed il lento incedere di Wagner), i nove minuti nove della fine del primo atto della Traviata - un misto di emozione legato alle suggestioni del testo coniugate al miracolo che si rinnova della creazione della magia del mi bemolle sovracuto (mi scendono le lacrime solo ad immaginarlo nella mia mente) - un preludio di Chopin (uno dei pochissimi casi nei quali mi emozionavo ascoltandomi suonare). Misteriose chiavi che aprono porte di emozione, e forse non è neppur sensato chiedersi perché queste lo facciano.
Ma lo specchio della barba, l'altra mattina, mi ha fatto una domanda che mi ha turbato. Perché le emozioni forti sembrano essere confinate tutte in questo ambito nella mia esistenza? Perché mi sento perdere nel nulla solo quando il coro esplode, quando la voce del soprano nell'Ave Verum si sviluppa cristallina nel suo arabesco perfetto? Possibile che riesca a provare emozioni solo in questo ristretto ambito, e sia un'insensibile persona nel resto della mia vita?
Perché mi succede questo non lo so. Non c'è una ragione che riesca a descrivere, ma è come se, durante quel preciso ascolto, mi sentissi preso da una specie di sindrome di Stendhal, come se avessi accesso ad un passaggio nascosto verso un universo di emozioni che altrimenti non percorro, e questa visione mi provoca una commozione non controllabile.
So ben riconoscere i tecnicismi dei passaggi musicali che generano questa sensazione: il crescendo ad ondate di Brahms (ed il lento incedere di Wagner), i nove minuti nove della fine del primo atto della Traviata - un misto di emozione legato alle suggestioni del testo coniugate al miracolo che si rinnova della creazione della magia del mi bemolle sovracuto (mi scendono le lacrime solo ad immaginarlo nella mia mente) - un preludio di Chopin (uno dei pochissimi casi nei quali mi emozionavo ascoltandomi suonare). Misteriose chiavi che aprono porte di emozione, e forse non è neppur sensato chiedersi perché queste lo facciano.
Ma lo specchio della barba, l'altra mattina, mi ha fatto una domanda che mi ha turbato. Perché le emozioni forti sembrano essere confinate tutte in questo ambito nella mia esistenza? Perché mi sento perdere nel nulla solo quando il coro esplode, quando la voce del soprano nell'Ave Verum si sviluppa cristallina nel suo arabesco perfetto? Possibile che riesca a provare emozioni solo in questo ristretto ambito, e sia un'insensibile persona nel resto della mia vita?
giovedì 12 novembre 2015
Cinque anni
Ognuno ha i propri percorsi, nella vita. Il proprio carattere, le proprie attitudini. C'è chi è impulsivo, chi agisce in un attimo. C'è chi, come me, ha bisogno di essere convinto, prima di fare una cosa. Una convinzione di testa, che purtroppo talvolta non coincide con le convinzioni emozionali.
In campo sentimentale devo essere, evidentemente, una frana. Curiosamente se ascolto le persone che mi conoscono, ma non hanno mai avuto un rapporto intimo con me, dicono tutte che sono da sposare (ora posso); se ascolto le donne con le quali c'è stato un rapporto d'amore dicono l'opposto. Ora, a meno che io non sia il dott. Jekyll, c'è qualcosa di strano. Si può spiegare la stranezza in tanti modi, che io sia molto meno interessante preso a grandi dosi (la versione di i.), oppure che io sia un bugiardo impenitente (la versione di b.), o che sia semplicemente tollerato fintanto che servo a soddisfare un bisogno (la versione di molte mie amiche). Qualunque sia la ragione, se cerco di capire come mi sono posto nei miei rapporti, comprendo sempre di meno. Non per merito, ma perché son fatto così, nel rapporto non mi risparmio: mi impegno, mi metto in dubbio, sono disponibile, credo di mettere sempre l'altro davanti a me stesso. Eppure, tutto questo sembra essere considerato nulla, anche quando mi si diceva "sai, non sono mai stata abituata a queste attenzioni, nessuno mi è mai venuto incontro quando stavo male". Comincio a credere che forse proprio qui stia il problema: considerare la mia disponibilità come un diritto, e non una scelta che si ripete ogni giorno. Quando questa disponibilità viene meno perché c'è un problema, perché non sono corrisposto, perché non la vedo apprezzata, allora si rompe il giocattolo. Ecco, forse proprio qui sta la ragione dell'affermazione di molte mie amiche, che sostengono che devo dire molti no.
In effetti, dire di no è il mio vero problema. Sono stato educato nel concetto che ad una richiesta si risponde di si, perché altrimenti si è egoisti. Ci è voluto molto per rendermi conto che spesso l'egoismo è invece di chi chiede, senza equilibrare le cose. Ho spesso fatto cose per prendermi carico dei problemi altrui, senza rendermi conto che questo veniva visto come mio dovere, e non come complicità. La complicità non è solo avere cose intime, conosciute solo all'interno del rapporto, ma è partecipare alla vita dell'altro, e comprenderne appieno il valore.
Probabilmente anch'io non ho sempre compreso in pieno il sapore della complicità. Non sempre ho capito il valore che la compagna attribuiva ai suoi gesti nei miei confronti. Non ho capito soprattutto cosa si aspettava da me, come non sono stato capace di far capire cosa aspettavo da lei, e soprattutto, cosa non aspettavo. Però credo sempre di aver saputo comprendere una cosa fondamentale: che siamo tutti delle persone che sbagliano, e io per primo. Anche quando fatti mi hanno procurato dolore, ho saputo capire e giustificare la donna con la quale condividevo l'Amore. Il mio limite è invece non reggere la mancanza d'armonia nella coppia: non sto parlando della litigata, ma della continua, incessante, martellante tensione. Se c'è un problema, le cose si risolvono insieme, il che vuol dire che, indipendentemente da chi abbia causato il problema, si cerca insieme di superarle, aiutandosi, e non pretendendo una rigida distribuzione dei compiti: amore ed equità si incontrano solo dopo un lungo percorso.
In campo sentimentale devo essere, evidentemente, una frana. Curiosamente se ascolto le persone che mi conoscono, ma non hanno mai avuto un rapporto intimo con me, dicono tutte che sono da sposare (ora posso); se ascolto le donne con le quali c'è stato un rapporto d'amore dicono l'opposto. Ora, a meno che io non sia il dott. Jekyll, c'è qualcosa di strano. Si può spiegare la stranezza in tanti modi, che io sia molto meno interessante preso a grandi dosi (la versione di i.), oppure che io sia un bugiardo impenitente (la versione di b.), o che sia semplicemente tollerato fintanto che servo a soddisfare un bisogno (la versione di molte mie amiche). Qualunque sia la ragione, se cerco di capire come mi sono posto nei miei rapporti, comprendo sempre di meno. Non per merito, ma perché son fatto così, nel rapporto non mi risparmio: mi impegno, mi metto in dubbio, sono disponibile, credo di mettere sempre l'altro davanti a me stesso. Eppure, tutto questo sembra essere considerato nulla, anche quando mi si diceva "sai, non sono mai stata abituata a queste attenzioni, nessuno mi è mai venuto incontro quando stavo male". Comincio a credere che forse proprio qui stia il problema: considerare la mia disponibilità come un diritto, e non una scelta che si ripete ogni giorno. Quando questa disponibilità viene meno perché c'è un problema, perché non sono corrisposto, perché non la vedo apprezzata, allora si rompe il giocattolo. Ecco, forse proprio qui sta la ragione dell'affermazione di molte mie amiche, che sostengono che devo dire molti no.
In effetti, dire di no è il mio vero problema. Sono stato educato nel concetto che ad una richiesta si risponde di si, perché altrimenti si è egoisti. Ci è voluto molto per rendermi conto che spesso l'egoismo è invece di chi chiede, senza equilibrare le cose. Ho spesso fatto cose per prendermi carico dei problemi altrui, senza rendermi conto che questo veniva visto come mio dovere, e non come complicità. La complicità non è solo avere cose intime, conosciute solo all'interno del rapporto, ma è partecipare alla vita dell'altro, e comprenderne appieno il valore.
Probabilmente anch'io non ho sempre compreso in pieno il sapore della complicità. Non sempre ho capito il valore che la compagna attribuiva ai suoi gesti nei miei confronti. Non ho capito soprattutto cosa si aspettava da me, come non sono stato capace di far capire cosa aspettavo da lei, e soprattutto, cosa non aspettavo. Però credo sempre di aver saputo comprendere una cosa fondamentale: che siamo tutti delle persone che sbagliano, e io per primo. Anche quando fatti mi hanno procurato dolore, ho saputo capire e giustificare la donna con la quale condividevo l'Amore. Il mio limite è invece non reggere la mancanza d'armonia nella coppia: non sto parlando della litigata, ma della continua, incessante, martellante tensione. Se c'è un problema, le cose si risolvono insieme, il che vuol dire che, indipendentemente da chi abbia causato il problema, si cerca insieme di superarle, aiutandosi, e non pretendendo una rigida distribuzione dei compiti: amore ed equità si incontrano solo dopo un lungo percorso.
E questo mi danza nello specchio, al mattino, quando riconosco che sono cinque anni che vivo da solo, e che forse la vita ed il tempo mi hanno inaridito.
mercoledì 14 ottobre 2015
Flexibility and wellness - Le nuove frontiere del lavoro
Sono reduce da una convention aziendale. Uno di quegli eventi di moda fra le aziende "ricche" per "motivare" il personale. In sostanza si tratta di uno o più giorni di svago inframezzati da attività pseudo formative nell'ambito del cosiddetto "team building", ossia nel convincere persone che volentieri si eviterebbero a stare insieme convincendole pure di stare a divertirsi.
Sarà l'età o il carattere, a me queste attività sembrano sempre più forzature, e le subisco cercando di analizzare, dietro ad esse, gli aspetti sociologici e di godere dei pochi eventuali aspetti interessanti delle attività in programma.
Questa convention si è tenuta in una area molto bella, che peraltro avrei volentieri evitata a causa di recenti storie sentimentali. La terraferma alle spalle di Venezia, peraltro, è molto affascinante per le sue magioni di campagna, molte delle quali trasformate in alberghi di charme nei quali abbiamo soggiornato. Alberghi che sanno tutti di muschio e muffa antica, di vecchi armadi e stanze in penombra, ricordandomi gli odori della mia campagna, non molto diversa da questa. Cultura del bello, neoclassico ovunque, una pace nello paesaggio anche sotto la pioggerellina.
E bella, affascinante, la gita in battello dalla foce del Sile fino a San Marco, di notte. Giacca marina, a prua, la bocca aperta a gustare la fila delle briccole che tracciano la rotta, illuminate da una tenue lucina, costeggiando la meravigliosa Burano, attraversando Murano, fino a sorprendere Venezia aggirando l'istituto Morosini, le luci del Lido di fronte. E passeggiare sulla riva degli Schiavoni alla luce dei lampioni, senza l'affollamento consueto, in una notte stranamente priva di umidità (la mia schiena ringrazia!)
Ma torniamo all'aspetto sociologico della convention: il gioco a tema. Le attività di team building sono sostanzialmente tutte uguali: giochini che spopolerebbero nelle scuole primarie, conditi con una supponenza di messaggio francamente spropositata. Questa volta si voleva riflettere sulle modificazioni del rapporto dipendente-azienda. La tesi era che sempre più si desidera avere un impiego che coniughi efficacemente il benessere con l'impegno, per evitare il dualismo lavoro-piacere e trasformare la vita in un piacere-lavoro.
Ascoltavo il concetto e pensavo cosa significasse in realtà: dietro alla visione del lavoro gratificante anche sotto l'aspetto ricreativo (attività sportiva o culturale coniugata con l'ufficio) mostrata come un modo per vivere con maggior appagamento la vita produttiva, mi appariva sempre più chiaro il tentativo di frantumare i confini ben consolidati fra ore lavorative e vita personale, in un mix indefinito nel quale una si insinua nell'altra. Insomma, puoi divertirti con un po' di palestra durante la giornata (se ne avrai il tempo), in compenso assicuri una presenza anche nelle canoniche off-hours grazie alla tecnologia (telefonini, internet, pc). Il concetto della destrutturazione del lavoro nel privato e viceversa, che consente una flessibilità (termine che nel frasario contemporaneo ha valenza più che positiva, qualunque cosa significhi) sempre maggiore.
Ora, non è che voglia fare battaglie di retroguardia, ma sono convinto che lo stipendio di ciascuno debba essere commisurato a due parametri complementari: al lavoro effettuato ed ai risultati ottenuti. Entrambi devono essere proporzionati e tarati per poter garantire un soddisfacimento dell'azienda e del dipendente. La richiesta di risultati che non sono raggiungibili se non attraverso un sacrificio della propria vita privata è una costante ed una consuetudine oramai consolidata; la mia sensazione è che questa apparente new age del benessere nel lavoro altro non sia che un modo per giustificare un'intrusione ancora più pesante nel privato dell'attività lavorativa, mascherandolo da benefit di azienda illuminata.
Sarà l'età o il carattere, a me queste attività sembrano sempre più forzature, e le subisco cercando di analizzare, dietro ad esse, gli aspetti sociologici e di godere dei pochi eventuali aspetti interessanti delle attività in programma.
Questa convention si è tenuta in una area molto bella, che peraltro avrei volentieri evitata a causa di recenti storie sentimentali. La terraferma alle spalle di Venezia, peraltro, è molto affascinante per le sue magioni di campagna, molte delle quali trasformate in alberghi di charme nei quali abbiamo soggiornato. Alberghi che sanno tutti di muschio e muffa antica, di vecchi armadi e stanze in penombra, ricordandomi gli odori della mia campagna, non molto diversa da questa. Cultura del bello, neoclassico ovunque, una pace nello paesaggio anche sotto la pioggerellina.
E bella, affascinante, la gita in battello dalla foce del Sile fino a San Marco, di notte. Giacca marina, a prua, la bocca aperta a gustare la fila delle briccole che tracciano la rotta, illuminate da una tenue lucina, costeggiando la meravigliosa Burano, attraversando Murano, fino a sorprendere Venezia aggirando l'istituto Morosini, le luci del Lido di fronte. E passeggiare sulla riva degli Schiavoni alla luce dei lampioni, senza l'affollamento consueto, in una notte stranamente priva di umidità (la mia schiena ringrazia!)
Ma torniamo all'aspetto sociologico della convention: il gioco a tema. Le attività di team building sono sostanzialmente tutte uguali: giochini che spopolerebbero nelle scuole primarie, conditi con una supponenza di messaggio francamente spropositata. Questa volta si voleva riflettere sulle modificazioni del rapporto dipendente-azienda. La tesi era che sempre più si desidera avere un impiego che coniughi efficacemente il benessere con l'impegno, per evitare il dualismo lavoro-piacere e trasformare la vita in un piacere-lavoro.
Ascoltavo il concetto e pensavo cosa significasse in realtà: dietro alla visione del lavoro gratificante anche sotto l'aspetto ricreativo (attività sportiva o culturale coniugata con l'ufficio) mostrata come un modo per vivere con maggior appagamento la vita produttiva, mi appariva sempre più chiaro il tentativo di frantumare i confini ben consolidati fra ore lavorative e vita personale, in un mix indefinito nel quale una si insinua nell'altra. Insomma, puoi divertirti con un po' di palestra durante la giornata (se ne avrai il tempo), in compenso assicuri una presenza anche nelle canoniche off-hours grazie alla tecnologia (telefonini, internet, pc). Il concetto della destrutturazione del lavoro nel privato e viceversa, che consente una flessibilità (termine che nel frasario contemporaneo ha valenza più che positiva, qualunque cosa significhi) sempre maggiore.
Ora, non è che voglia fare battaglie di retroguardia, ma sono convinto che lo stipendio di ciascuno debba essere commisurato a due parametri complementari: al lavoro effettuato ed ai risultati ottenuti. Entrambi devono essere proporzionati e tarati per poter garantire un soddisfacimento dell'azienda e del dipendente. La richiesta di risultati che non sono raggiungibili se non attraverso un sacrificio della propria vita privata è una costante ed una consuetudine oramai consolidata; la mia sensazione è che questa apparente new age del benessere nel lavoro altro non sia che un modo per giustificare un'intrusione ancora più pesante nel privato dell'attività lavorativa, mascherandolo da benefit di azienda illuminata.
giovedì 8 ottobre 2015
E Susanna non vien
E' il titolo di un bellissimo saggio, sulla trilogia dapontiana delle opere di Mozart, che mi regalò mesi fa Roceresale, sorridendo sul doppio senso della frase. Ma prima ancora è l'inizio di un recitativo delle Nozze di Figaro, appunto una delle opere della citata trilogia.
La tesi di questo saggio è che esiste un filo conduttore fra queste grandi opere, la passione amorosa espressa nella declinazione del piacere della schermaglia (Così fan tutte), nel turbine della follia fuori controllo fino a diventar criminale (Don Giovanni), e nella passione pura che riporta il disordine all'ordine (le Nozze di Figaro). A fianco di questo fil rouge, ci sono dei sottotemi comuni (ruoli simili con importanze diverse - ad esempio il conte d'Almaviva e Don Giovanni rappresentano il libertino con aspetti di compulsività diversi) che intrecciano le tre opere in modo indissolubile.
Delle tre, amo il Don Giovanni in modo particolare. Il saggio mi ha fatto nascere il desiderio di ascoltare con attenzione diversa anche le altre, sicché non mi sono lasciato scappare l'occasione, qualche giorno fa, di un canale di rappresentazione che avevo visto pubblicizzato ma non avevo mai provato: l'Opera al Cinema. Ho visto un cartellone che reclamizzava la diretta dal Covent Garden delle Nozze, in un cinema della mia città, e ci sono andato.
Come ho scritto in un recente post, la tecnologia moderna consente di fruire dell'Opera in modi diversi e nuovi, e di interpretarla in forme altrettanto varie. Una ripresa diretta di una rappresentazione operistica in teatro apparentemente non è altro che un reportage di un evento consueto, con la differenza di offrire a più persone la possibilità di partecipare allo spettacolo. Quella a cui ho assistito invece mi è sembrata un'intelligente applicazione della tecnologia per fruire in modo diverso della stessa messa in scena che i fortunati londinesi seduti al Covent Garden stavano godendosi.
Chi siede a teatro ha, per questioni fisiche, una visione del palcoscenico "globale" e, fatto salvo l'uso dei binocoli da teatro, non ha modo di apprezzare appieno le espressioni, la recitazione, l'aspetto fisico legato all'attorialità del cantante. Questa limitazione ha fatto si che in passato i cantanti d'opera fossero delle statuine poste sul palco, animate da movimenti standardizzati, e si concentrassero fondamentalmente sull'espressione vocale. La ripresa cinetelevisiva invece permette di "andare" sul palco, fruire delle espressioni, godere dell'aspetto recitativo del corpo. La generazione recente dei cantanti d'opera ha imparato che non basta più una gran voce, bisogna essere allo stesso tempo dei bravi attori, sapersi muovere, occupare la scena, recitare, mentre ci si sta concentrando sull'emissione vocale. Un ostacolo nuovo, una sfida impegnativa.
Lo spettacolo a cui ho assistito ha evidenziato questa caratteristica: ho visto una gran recita, quasi cinematografica, a corredo di un'esecuzione di alto livello dal punto di vista del canto. Mi è rimasto un dubbio, che è quasi certezza, ossia che la recita non sia stata effettuata cantando, e che si sia mixato in un secondo tempo voce e presa scenica. Ho avuto la sensazione che talvolta le labbra non fossero sincrone con il canto, come se i cantanti stessero recitando muovendo le labbra mentre ascoltavano l'opera preregistrata cantata da loro. Questo spiega la loro capacità di saltare a destra e a manca mentre cantano a squarciagola, uno sforzo difficilmente sopportabile anche da giovani cantanti come loro.
Benché qualche purista possa storcere il naso, io non sono contrario a questo approccio. E' una fase tecnica, come lo è la registrazione discografica: possibilità espressive nuove altrimenti precluse dalla rappresentazione classica. Per chi assiste è ben diverso ascoltare una grande voce che recita (l'opera è teatro in musica, il buon Monteverdi lo concepiva come recitar cantando), piuttosto che ascoltarla e basta, come se fosse un disco vivente.
Quindi grande spettacolo, a mio avviso. Un'esperienza che mi è piaciuta, ed un cast di cantanti di tutto riguardo (dal Covent Garden non ci si può aspettar di meno, peraltro).
Il trailer qui sotto da un'idea di quello che significa unire scena cinematografica a belcanto.
Delle tre, amo il Don Giovanni in modo particolare. Il saggio mi ha fatto nascere il desiderio di ascoltare con attenzione diversa anche le altre, sicché non mi sono lasciato scappare l'occasione, qualche giorno fa, di un canale di rappresentazione che avevo visto pubblicizzato ma non avevo mai provato: l'Opera al Cinema. Ho visto un cartellone che reclamizzava la diretta dal Covent Garden delle Nozze, in un cinema della mia città, e ci sono andato.
Come ho scritto in un recente post, la tecnologia moderna consente di fruire dell'Opera in modi diversi e nuovi, e di interpretarla in forme altrettanto varie. Una ripresa diretta di una rappresentazione operistica in teatro apparentemente non è altro che un reportage di un evento consueto, con la differenza di offrire a più persone la possibilità di partecipare allo spettacolo. Quella a cui ho assistito invece mi è sembrata un'intelligente applicazione della tecnologia per fruire in modo diverso della stessa messa in scena che i fortunati londinesi seduti al Covent Garden stavano godendosi.
Chi siede a teatro ha, per questioni fisiche, una visione del palcoscenico "globale" e, fatto salvo l'uso dei binocoli da teatro, non ha modo di apprezzare appieno le espressioni, la recitazione, l'aspetto fisico legato all'attorialità del cantante. Questa limitazione ha fatto si che in passato i cantanti d'opera fossero delle statuine poste sul palco, animate da movimenti standardizzati, e si concentrassero fondamentalmente sull'espressione vocale. La ripresa cinetelevisiva invece permette di "andare" sul palco, fruire delle espressioni, godere dell'aspetto recitativo del corpo. La generazione recente dei cantanti d'opera ha imparato che non basta più una gran voce, bisogna essere allo stesso tempo dei bravi attori, sapersi muovere, occupare la scena, recitare, mentre ci si sta concentrando sull'emissione vocale. Un ostacolo nuovo, una sfida impegnativa.
Lo spettacolo a cui ho assistito ha evidenziato questa caratteristica: ho visto una gran recita, quasi cinematografica, a corredo di un'esecuzione di alto livello dal punto di vista del canto. Mi è rimasto un dubbio, che è quasi certezza, ossia che la recita non sia stata effettuata cantando, e che si sia mixato in un secondo tempo voce e presa scenica. Ho avuto la sensazione che talvolta le labbra non fossero sincrone con il canto, come se i cantanti stessero recitando muovendo le labbra mentre ascoltavano l'opera preregistrata cantata da loro. Questo spiega la loro capacità di saltare a destra e a manca mentre cantano a squarciagola, uno sforzo difficilmente sopportabile anche da giovani cantanti come loro.
Benché qualche purista possa storcere il naso, io non sono contrario a questo approccio. E' una fase tecnica, come lo è la registrazione discografica: possibilità espressive nuove altrimenti precluse dalla rappresentazione classica. Per chi assiste è ben diverso ascoltare una grande voce che recita (l'opera è teatro in musica, il buon Monteverdi lo concepiva come recitar cantando), piuttosto che ascoltarla e basta, come se fosse un disco vivente.
Quindi grande spettacolo, a mio avviso. Un'esperienza che mi è piaciuta, ed un cast di cantanti di tutto riguardo (dal Covent Garden non ci si può aspettar di meno, peraltro).
Il trailer qui sotto da un'idea di quello che significa unire scena cinematografica a belcanto.
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